Conversazione con Carlo Flamigni

La conoscenza e la specie umana sui progressi e il controllo della ricerca

Ci sono recenti e molto concrete testimonianze del fatto che esiste una ricerca post-accademica che non accetta le regole del gioco, non è comunista, non è disinteressata, non è trasparente, si basa sul segreto, sull’interesse e sul guadagno. Faccio degli esempi perché credo rimangano sempre meglio impressi e aiutino a capire. Esistono pubblicazioni di grandi lavori di ricerca americani che riguardano la terapia ormonale delle donne in menopausa. Queste ricerche sono state fatte su alcune centinaia di migliaia di donne, e quindi hanno un peso straordinario dal punto di vista quantitativo, anche se sono ricerche qualitativamente abbastanza criticabili; quello che ne esce è un messaggio molto preciso per i medici e le donne, e il messaggio è «cari medici, care donne, tutto quello che avete letto sui giornali scientifici fino ad oggi sul trattamento ormonale delle donne in menopausa è falso. Non è vero che la terapia ormonale della menopausa è priva di effetti negativi, non è vero che ha gli effetti positivi che voi avete sentito raccontare». È molto interessante sapere, fra l’altro, che questa ricerca, che è molto difficile attribuire all’accademia perché è stata finanziata dall’industria, è stata presentata prima ai media che ai medici e agli scienziati.
Il riflesso sulle donne italiane è stato molto interessante. Queste pubblicazioni sono uscite nel  luglio del 2002, e i giornali italiani ne hanno parlato tra luglio e agosto; in settembre la vendita degli ormoni alle donne in menopausa in Italia è diminuita del 20%; in ottobre è tornata ai valori precedenti. Questa è una novità per modo di dire, abbiamo un’esperienza molto simile anche in altri settori. È recente per esempio una pubblicazione che ha dichiarato la stessa cosa sulla terapia dell’ipertensione, dicendo che quanto era sostenuto circa il particolare vantaggio di assumere una serie di farmaci, tra l’altro particolarmente costosi, era falso, quando la somministrazione di un diuretico, farmaco banale e anche molto meno caro, ha esattamente gli stessi risultati.
Ricordo anche la tragedia sfiorata dagli studi sulla contraccezione ormonale femminile, iniziati da Pincus ‑ grande organizzatore e scienziato modesto, che soprattutto aveva molto il senso politico del momento ‑ fuori dagli Stati Uniti, per paura di critiche che avrebbe ricevuto se avesse determinato effetti negativi sulle donne trattate, tanto che furono fatti in uno dei paesi del Sud America che rappresentano lo stabulario americano quando si devono fare ricerche sperimentali. Per un breve periodo il caso fu soffocato dal fatto che le due industrie farmaceutiche che producevano i progestizi alla base delle due pillole erano entrambe dirette da presidenti cattolici, i quali per un attimo ascoltarono la voce del Vaticano che diceva «per carità smettete le ricerche in questo campo, è una vergogna». Dopo di che le aziende si resero conto del grande retroterra economico che si intravedeva dietro a queste ricerche, che quindi furono prese di petto dall’industria farmaceutica americana; ed è interessante sapere che per quasi vent’anni tutte le voci che sostenevano la possibilità di effetti collaterali delle pillole in genere sono state messe a tacere: nessun modo di arrivare ai congressi internazionali, le pubblicazioni respinte dalle grandi riviste, fortemente influenzate dalle industrie – nessuna rivista del settore potrebbe sopravvivere se le industrie non acquistassero la pubblicità delle proprie produzioni.
Questo è un problema, tanto maggiore in quanto le regole della ricerca post-accademica stanno tracimando. La mancanza di fondi per la ricerca di base fa sì che un ricercatore possa essere invogliato a chiedere un finanziamento alle industrie. E dico industrie ma potrei dire anche […] tutti i grandi poteri del mondo economico-finanziario, che hanno caratteristiche come quella di non avere nessuna voglia e nessuna necessità di sottoporsi a un controllo sociale, che non è cosa di poco conto. Se uno di questi ricercatori riceve questo obolo, alla fine della ricerca non è padrone dei risultati che ha ottenuto, deve chiedere il permesso per pubblicarli, e il permesso può venirgli negato. Ora io non credo che tra l’altro esista solo un problema di ricerca scientifica, ma anche un problema di sanità post-accademica altrettanto importante, che è sotto i nostri occhi ma che noi non sappiamo valutare. La sanità cosiddetta accademica era quella che si basava su una serie di regole morali; per esempio si diceva che il medico si dovesse ispirare a certe forme di etica come l’etica delle piccole virtù o l’etica della cura, e si condannavano forme e modelli di medicina diversi, come quello basato sul contratto o sulla paura, e quindi sulla difesa dalla possibile aggressività del paziente. L’aziendalizzazione degli ospedali, che ha portato anche cose positive, ha avuto come effetto negativo una deriva antropologica di cui non ci rendiamo conto ma che dovremo cercare di capire. Tra l’altro questa aziendalizzazione ha posto una specie di veto sulla discussione di alcuni di quelli che dovrebbero essere i grandi temi del nostro dibattito collettivo sui problemi della salute.
Perché nessuno discute mai sul fatto che un operaio e un impiegato, in questo paese ‑ in Italia, non in America ‑ sottoposti a uno stesso intervento hanno un rischio di mortalità diverso; e perché non si discute mai del fatto che un bambino che nasce ai margini di una grande città ha molti più rischi di un bambino che nasce nel centro della stessa città di essere operato di interventi inutili; e che cosa ne dicono le donne dell’incremento degli interventi di isterectomia, di asportazione dell’utero, che si sta verificando negli ultimi tempi? Una volta l’isterectomia era particolarmente “simpatica” ai medici che lavoravano nel settore privato, poi è diventata “simpatica” ai medici che lavoravano nel settore pubblico, e adesso è diventata “simpatica” a chi dirige il settore pubblico perché è un intervento che si fa con facilità – certo, poi esistono danni psicologici, ma nessuno li prende in considerazione perché la psicologia in questo paese ha diritto di dimora molto breve.
Quindi questo è un primo problema, che pone subito un quesito: è necessario un controllo? Ci vogliono regole per questa ricerca? Il secondo problema è intermedio, lo incontro lungo il percorso: sono sufficienti le regole? La ricerca scientifica, la produzione di nuove conoscenze, soprattutto in campo biologico, in campo medico, una volta sottoposta a regole può garantirci di essere nostra alleata, oppure ci sono circostanze in cui la troviamo ostile malgrado tutte le regole siano state rispettate? Bene, è così, spesso non è nostra alleata. Potrei fare una serie di esempi, ne faccio uno che mi sembra colpisca di più. Si tratta di una ricerca fatta a Ferrara, non molto lontano da noi: una genetista ha trovato che in molte persone, molti uomini sterili ma anche molte persone che non hanno patologie evidenti, è incorporato nel genoma un virus che è caratteristico delle scimmie; questo virus è scivolato nel nostro genoma quando si preparavano le vaccinazioni per la poliomielite: il vaccino per la poliomielite è stato preparato coltivando il virus in cellule di rene di scimmia; adesso questo virus è incorporato nel genoma e noi lo diamo ai nostri figli e così com’è è apparentemente inattivo, per quello che riusciamo a capire. Incorporato nel genoma avrebbe benissimo potuto fare gli stessi danni che fa se viene isolato e usato sperimentalmente, e in questi casi determina la comparsa di tumori nel sistema nervoso. Il terzo punto riguarda i ricercatori. Io sono d’accordo sul fatto che i divieti debbano essere pochi, sono però anche convinto che le regole ci debbano essere, e sono convinto del fatto che i ricercatori debbano rispettarle, perché la ricerca scientifica oggi non è più quella che è stata a lungo, quella di un occhio che guardava le cose e traeva deduzioni e produceva conoscenze usando il proprio sguardo: oggi la ricerca scientifica è prevalentemente una mano che fruga, frugando induce mutamenti, comprende dai mutamenti che induce, usa strumenti e quindi fa parte delle tante attività sociali e le attività sociali hanno bisogno di regole e hanno anche bisogno che queste regole vengano rispettate. Quindi si tratta di controlli o di trasparenza, delle due l’una: se ci fidiamo basta la trasparenza, se non ci fidiamo servono i controlli.

Mi viene inevitabile una domanda: chi deve controllare la scienza, e perché la scienza ha bisogno di un controllo? Si potrebbe alzare domani [in un’aula come questa] il proprietario di una grande industria che investe nella ricerca scientifica e dire: «Mi dica lei per quale ragione io dovrei in qualche modo sottoporre le mie iniziative a un controllo sociale, sono soldi miei, la posizione di conoscenza una volta che è mia la controllo io». Io credo che non possa essere così, e parto molto semplicemente […] con un valutazione di come la scienza è nata.

La scienza è nata come atto conclusivo di quella straordinaria capacità di adattamento che l’evoluzione ha donato ad alcuni primati, soprattutto allo homo sapiens sapiens. […] Uso questo termine perché il «donare» è un «dare che non vuole niente in cambio», e in realtà l’evoluzione ci ha fatto un dono perché non ci ha chiesto nulla in cambio. Ci ha donato casualmente cosa? Questo straordinario sistema nervoso che noi abbiamo e che ci rende diversi da tutte le altre specie. Un sistema nervoso complesso anche nella costruzione, sono numeri nel sistema nervoso che io non riesco ad afferrare, ci sono 1014 sinapsi, vuol dire centomila miliardi di sinapsi nel tessuto nervoso di ciascuno di noi. E questo è quello che è accaduto, e poteva accadere anche qualcosa che portava a numeri più elevati di questo. Cosa ci consente di fare, allora, questo tessuto nervoso? Una serie di cose complesse e difficili: ci consente di percepire, di interpretare, di organizzare, di immagazzinare, di rielaborare, di rievocare una serie di dati sensoriali che ci arrivano dal mondo esterno. Ci consente di affrontare e risolvere problemi, con la soluzione dei quali noi interveniamo con le nostre capacità induttive e deduttive, ci consente di immaginare una serie di mondi possibili e di stabilire quale di questi mondi è più adatto alla nostra specie, e ci consente anche di cercare di costruire questo mondo possibile. Ora, noi abbiamo questo nuovo e straordinario strumento, l’abbiamo avuto per caso, non ha importanza, ma una volta dotati di questo noi abbiamo costruito un sistema nuovo del quale abbiamo dettato le regole, forse è anche un po’ ingiusto nei confronti delle altre specie perché abbiamo costruito un sistema di regole che ci autorizziamo da soli a valere, che hanno costretto l’evoluzione a cambiare registro. L’evoluzione, per quello che ci riguarda, non è più la stessa. D’abitudine l’evoluzione funziona con la scelta, tra una serie di mutazioni, di quella più adatta alla sopravvivenza e alla soluzione di un problema. Nel nostro caso il problema è molto più semplice: di fronte a un problema noi modifichiamo lo stato delle cose, interveniamo sul problema, non facciamo nessuno sforzo a noi stessi. Mi viene  sempre in mente un vecchio ma divertente film di avventura [Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta] in cui l’eroe si trovava a un certo momento davanti a un guerriero carico di armi evidentemente terribili, che dava un attimo di suspence ‑ come se la caverà [il nostro eroe] ‑; ma dopo un attimo di stupore l’eroe tirava fuori la rivoltella e gli sparava, molto semplicemente. Questo è quello che facciamo noi, pensate a quello che accade alla maggioranza delle specie che traggono potere in qualche modo dalla loro capacità di produrre nuove specie; la speciazione è questo: ogni volta che parte di una specie viene separata dal resto del gruppo si modifica, diventa una nuova specie e noi lo capiamo perché rimessa in contatto con la sua specie di origine non è più capace di proliferare.
Se noi troviamo una nuova nicchia la modifichiamo e la occupiamo così come stiamo. Può anche darsi che l’uomo si stia modificando, non lo sappiamo e non lo capiamo, ma da molti molti secoli non vediamo nessuna mutazione umana che abbia caratteristiche [di mutazione], e di fronte a una nuova mutazione l’uomo la chiama anomalia e la sopprime, perché il prototipo è migliore della mutazione, sempre. Che cosa vuol dire tutto questo? Faccio un esempio […] che riguarda il mestiere di cui mi occupo, è l’esempio della fertilità e ricordo a chi mi vuole ascoltare la storia di una specie che stava perdendo fertilità; erano pesci che vivevano nel Mar Rosso, se ricordo bene. Voi sapete come si riproducono i pesci, la femmina fa le uova, il maschio eiacula sulle uova e le fertilizza. Solo che queste uova erano molto appetite, un piatto prelibato per molti altri pesci, e appena la femmina le faceva questi pesci arrivavano e se li mangiavano. Allora la femmina ha cominciato a prendere i pesci in bocca per difenderli, a tenerli nella propria bocca, soltanto che nella fretta di prenderli e salvarli ha accorciato sempre i tempi fino a togliere al maschio la possibilità di fecondarli. Se ci pensate è un modo per far spegnere la specie. Non ho la più pallida idea di quante mutazioni ci siano state, ma so quale è stata quella vincente: il maschio ha sviluppato vicino alla pinna caudale una pallina tonda, esattamente uguale all’uovo della sua femmina, e quando la femmina ha preso le uova in bocca lui le mostra la pinna caudale, la femmina si avvicina, apre la bocca per mangiarsela e in quel momento il maschio eiacula e le fertilizza tutte le uova in bocca.
Noi abbiamo un problema molto simile per quanto riguarda i nostri uomini, stanno perdendo fertilità con grande rapidità, chi confronta gli spermiogrammi di cinquant’anni fa con quelli di oggi ne rimane sbalordito. Ne è diminuito della metà il numero, la morfologia è cambiata straordinariamente in peggio eccetera. Ma noi abbiamo messo a punto tecniche che consentono di rendere fertile un uomo che ha un unico spermatozoo, laddove siamo sempre stati convinti che fossero necessarie decine di milioni di spermatozoi mobili e attivi per avere un bambino. La nostra capacità di intervento quindi si fa nel modo più semplice perché abbiamo la possibilità di intervenire sulle cose. Un altro esempio che faccio è quello dei pinguini. C’è un tipo di pinguino che cammina generalmente molto vicino al bordo del pak, ma non cammina mai in linea retta, il suo è un cammino sempre molto tortuoso, cammina girando in tondo ma procedendo sempre in avanti; si è cercato di capire per quale ragione. La ragione più probabile è questa: se camminassero tutti in fila ce ne sarebbe qualcuno molto vicino al bordo del pak, e gli altri pinguini, che ne hanno l’abitudine, gli darebbero una spintarella per buttarlo in acqua per vedere se c’è un’orca. Se c’è l’orca se lo mangia, e loro non fanno il bagno. Questa è stata una mutazione che ha imposto geneticamente ai pinguini un certo tipo di deambulazione.
Noi abbiamo problemi di traffico, forse più drammatici di quelli dei pinguini, e abbiamo inventato i semafori. Io posso immaginare una ricerca scientifica iniziale basata su grandi errori, ma anche basata su una capacità, che è classica dell’uomo, di imparare sui propri errori, ed è uno dei primi passi veri dell’evoluzione scientifica […]. Sin dall’inizio non si è fatto più soltanto ricerca scientifica per risolvere un problema della società: la ruota doveva risolvere il problema del trasporto di merci, ma sapere per quale ragione gli uccelli maschi hanno code così variegate e variopinte è una curiosità prettamente fine a se stessa. Questa è un’obiezione a chi dice che l’acquisizione di conoscenza è in qualche modo sempre utile all’uomo, perché non si vede utilità nella acquisizione di conoscenze relative alle proprie curiosità. In realtà non è così, la società ha capito molto presto che qualsiasi conoscenza in qualche modo può essere utilizzata. Io ho sentito un ricercatore fare un esempio che sembrava abbastanza comprensibile. Diceva: la conoscenza si allarga come le macchie di umidità sui muri, che non hanno un allargamento costante e uniforme; ogni tanto c’è una specie di pseudopodo che parte, e non si capisce dove vada. Ma poi due pseudopodi stranamente si ricongiungono molto lontano, e tutta la parte interna viene ricoperta di umidità. È tutta una grande zona di mancanza di conoscenza che viene illuminata dalla conoscenza.
Uno dei problemi che sono avvenuti con il progresso delle conoscenze è stato quello riguardante il fatto che non esiste una verità scientifica, mentre esistono i consensi, e quindi ogni teoria è valida solo in un certo ambito e con certi presupposti. Parlare di verità scientifica è un concetto scorretto, extrascientifico, che non può far parte della scienza. Un grande filosofo diceva: poche cose sono illuminate dalla conoscenza, tutte le altre sono collocate nel crepuscolo della probabilità. La scienza è stata largamente usata per rendere la conoscenza più lunga, più sicura, in qualche modo migliore. Cosa ha spinto l’uomo a dare tanto rilievo alla produzione di conoscenza? Io questo lo dico come probabilità, non sono certo che quello che dico sia vero. Ma la cosa più probabile, secondo me e secondo altri, è che a farlo ci sia stata una antica veneranda legge biologica che è quella che tende a far sì che ogni specie trasmetta i propri geni al maggior numero di discendenti possibile perché questo assicura la continuità e la permanenza della specie sulla terra, e se non lo si fa si tende a scomparire.
Quindi è un’indicazione biologica così importante che quando si acquisisce uno strumento utile al fine di trasmettere i propri geni esso entra piano piano a far parte del proprio patrimonio genetico, diventa una caratteristica genetica, un problema innato. Allora dovremo a questo punto continuare il ragionamento sulla scienza tenendo conto del fatto che non possiamo pensare a una scienza che riguarda l’interesse scientifico di una persona; la scienza non può accontentare l’egoismo dell’uomo perché se così fosse potrebbero avvenire cose assurde e riprovevoli come il fatto che l’uomo, una volta padrone di uno strumento scientifico, lo usi contro i suoi simili, e a questo punto ci sarebbe un danno per la specie, e la specie potrebbe anche essere messa a rischio. Quindi dobbiamo immaginare che esista, in tutte le specie, una sorta di comportamento di convivenza, quella che alcuni chiamano «religione biologica di specie». Siamo generosi con gli altri perché conviene alla specie. Molte delle nostre capacità di essere in qualche modo portatori di solidarietà dipendono dal fatto che siamo anche consapevoli che così facendo agiamo nell’interesse della specie, e anche nel nostro interesse. Un problema quindi basato sulla sensazione di una convenienza collettiva, sensazione involontaria finché vi pare, ma molto forte. Questo probabilmente è il punto fondamentale di quello che sto dicendo. Nella nostra società l’uomo ha raggiunto il dominio della natura, e la potenzialità di distruggere i suoi simili; tutto questo rende inadeguati e insufficienti i comportamenti innati, dei quali non ci possiamo più fidare. È necessario che le regole vengano trasmesse, e quello che un’altra specie fa geneticamente noi lo facciamo culturalmente.
Trasmettiamo regole con l’educazione. Toraldo Di Francia ha scritto che «la nascita della morale rappresenta il sorpasso del culturale sul genetico», almeno per quanto riguarda  il comportamento dell’uomo. È un altro passo. Poi la nostra specie ha controllato la natura, l’ha modificata, l’ha adattata ai propri bisogni, e questo controllo è necessario anche nei confronti dell’uomo stesso. Allora la sopravvivenza del gruppo è più importante della sopravvivenza del singolo, e ne deriva che la produzione di conoscenza, quindi la scienza, deve essere utile alla sopravvivenza del gruppo, alla sopravvivenza della società. Di qui alla necessità di un consenso sociale per legittimare la conoscenza mi pare che il passo sia breve. La scienza deve in qualche modo essere controllata dalla società, sono necessarie regole che riguardano le prerogative della produzione di conoscenza, che riguardano il comportamento dei ricercatori, ai quali non può essere consentito di utilizzare gli strumenti usati per la scienza per mettere a rischio l’uomo e la società. La serie di regole che sono necessarie le avete già sentite: il comunitarismo, il disinteresse, la trasparenza, una serie di regole che sono quelle che la scienza accademica accetta e la scienza post-accademica accetta ancora marginalmente per non trovare in questo momento così delicato della transizione un impatto critico negativo che la danneggerebbe.
Quindi si può anche provare a definire la ricerca scientifica e la produzione delle scienze; io ho scelto una definizione che mi sembra interessante perché dice: la ricerca è una peculiare istituzione sociale che si propone di produrre conoscenza e coinvolge grandi quantità di persone che eseguono con regolarità azioni specifiche coordinate consapevolmente in progetti più vasti. Dietro tutto questo c’è un’indicazione molto precisa, e cioè che il ricercatore deve lavorare nell’ordito, non può lavorare da solo. Se si muove contro il parere degli altri lo si può anche rispettare, per carità, ma non fa più parte della ricerca scientifica o del mondo della scienza; chi non accetta queste regole esce in qualche modo dalla comunità.
Se tutto il mondo scientifico dice che non si può clonare l’uomo perché clonarlo è pericoloso, chi dice «io lo clono lo stesso» — vorrei dire che è un imbecille, ma siccome dicendo così non sarei abbastanza laico — esce dalla comunità del mondo scientifico; il mondo sociale deciderà poi come comportarsi nei suoi confronti. Ho già detto quali sono le norme alle quali la scienza deve ubbidire: tali criteri sono l’originalità, la creatività, lo scetticismo organizzato che è quello che fa sì che sia il ricercatore stesso a porre il dubbio, a individuare i danni che lui stesso ha prodotto, e che è in qualche modo il freno della ricerca, così come l’originalità della ricerca è il motore della produzione di conoscenze […]. Questo è il primo problema importante. Per dare risposta al quesito che mi ero posto, io credo che l’obbligo di sottoporsi al controllo sociale riguardi tutta la produzione di conoscenza.
Non possiamo accettare una produzione di conoscenza che sfugga a un nostro controllo, noi siamo la società. Chi produce conoscenza non potrebbe agire se non ci fosse stata dietro di lui una società che glielo ha concesso. Io sono diventato un ricercatore perché ho studiato, mi sono impegnato, ma anche perché dietro di me c’è una società solidale che mi ha consentito di occuparmi delle cose di cui mi piaceva occuparmi. Non posso immaginare di tagliare improvvisamente il mio cordone ombelicale con la società per prendere un atteggiamento autonomo.
Il problema invece di quali sono le regole e di chi detta le regole è un problema talmente complesso che io credo che la prima tentazione sia quella di dire «va bene, esistono delle regole morali molto precise, codificate, scritte nei libri, sono quelle delle religioni, usiamo quelle».
Sono terrorizzato da questa ipotesi, intanto perché credo che Buddha, Gesù o Maometto non avessero la più pallida idea dei problemi che debbono affrontare i ricercatori moderni, quindi stiamo parlando di una morale religiosa antica, lenta, dogmatica, che non vuole discutere. Credo che oltretutto, e questo lo dico come testimonianza recente, ci sia una forte tendenza alla malafede in tutte le religioni, e non intendo malafede come voglia di mentire, ma come cattiva interpretazione del proprio ruolo all’interno della società. Ci sono prove di questo, discussioni su temi che sono stati affrontati ignorando la verità o costruendosi verità alternative, se volete posso fare degli esempi, ce ne sono molti. Faccio quello che mi viene in mente per primo, il problema della genetica. Oggi si sta creando nella popolazione e nell’opinione pubblica, una sensazione di sgomento nei confronti della possibilità della scienza, come se parlassimo di stregoni che all’interno delle loro caverne stanno lavorando su quelle che sono le condizioni fondamentali che fanno dell’uomo quello che è, modificando la natura essenziale dell’uomo […].
Su questa base la morale di senso comune si è sempre modificata, ha fatto un piccolo giro, ha accettato qualcosa di nuovo, solo che questo comporta informazione, perché non si fanno intuire le possibilità concrete, i vantaggi che derivano dalle conoscenze possibili se non si fa onestamente, concretamente informazione. E la sensazione di molti è che l’informazione venga in qualche modo trattenuta. Il metodo dovrebbe essere quello di applicare a questi problemi, incluso quello dell’informazione, la tecnica dell’etica laica, cioè la possibilità di creare mediazioni senza rinunciare a nessun principio di autonomia, di rispetto delle convenzioni altrui, di dare a tutti la possibilità di esprimersi perché nella discussione noi ci dobbiamo riconoscere reciprocamente, siamo persone perché portiamo valori, ed è nei confronti dei valori che ci dobbiamo confrontare. Siamo anche vicini a decisioni importanti che riguardano l’avvenire della nostra società, e credo che per tutti noi non si tratti più tanto di dire cosa dobbiamo fare, ma cosa vogliamo fare. Credo che questa sia la scommessa da fare. È una decisione che non può essere presa da scienziati o da filosofi perché ci riguarda tutti, e credo che oggi sia il momento di far sì che tutti i cittadini capiscano le conseguenze possibili degli scenari immaginabili; questo vuol dire una democrazia compiuta, mentre una democrazia basata sulla disinformazione è una democrazia incompiuta.

 

Trascrizione dell’intervento registrato a cura di Nuovamente

 

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