Franco Oliva – Per un laboratorio permanente sui diritti
|Vorrei partire da una considerazione del professor Stefano Canestrari, e che, se mi trova più che d’accordo nelle intenzioni e nell’auspicio, mi trova un po’ meno d’accordo quanto alle possibilità concrete di realizzazione. Lui diceva: “sottrarre alla disputa della politica le questioni relative all’esecuzione della pena”. Credo sia una bellissima utopia, perché così non è mai stato, così probabilmente non sarà in futuro.
Occorre, quindi, semmai, individuare luoghi di dibattito, alternativi ai tradizionali luoghi della politica, che siano in grado di temperare ciò che necessariamente accade in sede politica e, comunque, di invertire una preoccupante tendenza, a rincorrere le risposte più repressive e regressive, per superare la quale non basta l’auspicio.
L’allarme sociale rispetto ai fenomeni criminali è alimentato all’interno di una spirale perversa che vede le forze politiche da una parte scavalcate da queste spinte di allarme sociale e dall’altro lato dare risposte tali da legittimarlo. E’ una valutazione erronea quella secondo la quale dare una risposta parziale ma nella stessa logica, nella stessa direzione in cui l’allarme viene sollevato, impedisce spinte estreme da parte di chi ha un bisogno, per altri versi giusto, di sicurezza. In realtà, così facendo, non si fa altro che alimentare quelle stesse spinte e portarle in modo esponenziale a crescere. Sentivo dire, in tempi passati, che dare risposte in termini di apparente sicurezza, in termini quindi di aumento della pena, di maggiore incisività dell’apparato repressivo, è quell’elemento che consente di arginare le spinte all’introduzione della pena di morte; non credo sia vero, credo che dare una risposta in questo senso legittimi la richiesta della pena di morte. A mio parere l’approccio corretto è questo: occorre dire chiaramente che una risposta emotiva in termini di iperbolicità della pena o di regressione dei diritti e delle garanzie, non paga; non produce alcun effetto reale positivo, al più attira consensi bisognosi (per essere mantenuti) di sempre più repressione e di sempre minori garanzie e diritti. Dire ciò è determinante per la stessa possibilità di iniziative come questa di incidere nel concreto.
Del resto una tale scelta di campo generale è necessaria anche perché parlare dell’esecuzione penale significa in realtà parlare di una parte soltanto dell’effettiva espiazione della pena; significa non parlare di ben il 70% dei detenuti nel carcere di Bologna, detenuti in attesa di giudizio presunti non colpevoli ai quali per definizione non può applicarsi alcun “trattamento” penitenziario, ma per i quali le scelte generali in tema di garanzie e di tempi processuali, di sanzioni penali, sono determinanti.
Una percentuale così elevata di detenuti non definitivi, del resto, costringe a fare i conti con il fatto che questa anticipazione di pena è divenuta un dato fisiologico, normale del nostro sistema.
Questo, anche a causa della lentezza dei processi, si fonda in realtà sull’accettazione di due importanti anomalie:
1) il processo, con i suoi tempi, la sua aleatorietà ed i suoi costi, a volte i suoi risvolti mediatici, è di per se stesso una pena inflitta all’imputato;
2) la custodia cautelare è la forma prevalente di detenzione e, conseguentemente, la pena prevalente viene irrogata senza processo, prima di questo ed a prescindere da questo.
A questi due elementi è associata una realtà, dalla quale pure non si può prescindere: la pena è rappresentata quasi esclusivamente dal carcere.
Non esiste infatti nel nostro Paese, se non in termini assolutamente marginali, una risposta dello Stato di diritto alla devianza diversa dal carcere, che assuma le forme concrete della risocializzazione, che aspiri non tanto a “contenere ed isolare”, quanto a rieducare e reinserire.
Questa esclusività della risposta carceraria è caratteristica di paesi economicamente non sviluppati e privi di un tessuto sociale ricco di articolazioni democratiche; è insomma, un’altra anomalia negativa per un Paese che, come il nostro, ha un elevato sviluppo economico ed una straordinaria tradizione democratica.
Fatte queste brevi considerazioni di carattere generale, occorre, tuttavia, non sfuggire da un tema più concreto che concerne la legittima pretesa che l’esistente, cioè fondamentalmente il carcere, funzioni comunque secondo parametri civilmente accettabili.
Ciò perchè se, da un lato, può dirsi (e sono il primo a pensarlo) che il carcere non potrà mai essere davvero civilmente accettabile, dall’altro lato sarebbe certamente sbagliato non fare i conti, in virtù di questa considerazione, con problemi drammatici e concreti della realtà carceraria sui quali si può e si deve intervenire.
Il carcere di Bologna, anche solo in termini di sovraffollamento, un numero considerevolmente maggiore di detenuti rispetto a quanti ne potrebbe contenere, con tutto ciò che questo comporta in termini di promiscuità, in termini di tutela, anzi di impossibilità di tutela delle condizioni minime igienico – sanitarie dei detenuti.
In una condizione di reclusione, accade che anche quei diritti della persona che siamo abituati a considerare scontatamente tutelati vengano frustrati, che anche i diritti e le garanzie minime di difesa divengano evanescenti. Permettetemi qualche esempio.
Accadeva, fino a ieri, che un detenuto completamente privo di mezzi economici (o, comunque, che non disponesse di denaro al momento dell’ingresso in carcere) fosse privato del diritto di tempestiva difesa semplicemente perchè il difensore non veniva prontamente avvisato della nomina da parte della Casa Circondariale; doveva essere l’assistito a provvedervi tramite telegramma a proprie spese. Poiché la possibilità di un’effettiva difesa è condizionata in molti casi alla scadenza di termini assai brevi, ciò che sembrerebbe una banalità si traduceva in una grave menomazione del diritto di difesa. Debbo dire che la Camera Penale di Bologna ha ottenuto diversi anni fa, non senza fatiche, l’immediata automatica comunicazione al difensore.
Ci sono, però, altri ostacoli non superati, che attengono, ripeto, all’essenziale in termini di effettività della difesa. Si pensi all’assenza presso il carcere di interpreti che consentano un colloquio effettivo del difensore con l’assistito che non parli affatto la nostra lingua e, magari, neppure altra lingua più conosciuta: sono moltissimi ed in questi casi il diritto di difesa è vuota formalità, perché preparare un interrogatorio difensivo, spiegare al proprio assistito le conseguenze delle dichiarazioni rilasciate o delle omissioni di dichiarazioni, così come comprendere che cosa ha intenzione di dire al P.M. o al G.I.P., è impossibile.
Spesso da queste dichiarazioni dipende la custodia cautelare e/o la successiva condanna: eppure il difensore si muove al buio, comunica a gesti, spera di aver indovinato. La massiccia presenza di detenuti provenienti da altri paesi impone la presenza degli interpreti, altrimenti è come se questi imputati – detenuti fossero sordi e muti e così pure i loro difensori.
Eppure autorevoli membri anche del nostro Tribunale di Sorveglianza avversano di fatto l’applicazione di questa legge, sostenendo addirittura che sarebbe una legge a favore dei difensori e proponendone, in tale assurda prospettiva, interpretazioni restrittive che contrastano con la volontà del legislatore e con la lettera stessa della legge.
Si tratta, voglio dirlo con forza di posizioni sbagliate che di fatto colpiscono quale unico obiettivo i soggetti meno abbienti, privandoli dell’effettività della difesa.
Riflettere su questi temi, alla luce delle considerazioni generali che facevo prima, forse può portare ad un’inversione di quella tendenza a ragionare solo in termini di iperbolicità dell’intervento repressivo.
Occorre un laboratorio permanente nel quale, in stretto rapporto con le istituzioni, tutti gli operatori del settore possano confrontarsi alla ricerca di risposte alla giusta domanda di sicurezza, alternative a quella sempre più preponderante del semplice ma inutile ricorso alla massima punizione, risposte fondate su una cultura democratica delle garanzie e dei diritti che appartiene a pieno titolo alla migliore tradizione del nostro Paese.