II. Storia e identità di alcuni luoghi bolognesi

Di Francesco Calzolaio

 

Abbiamo concluso il capitolo precedente indicando l’identità di un luogo come il risultato della stratificazione storica di eventi significanti e significativi, di segni interpretabili, riconoscibili e selezionati che ne definiscono la ragion d’essere e, in generale, il senso (nello spazio, nel tempo e relativamente all’uomo). Lungi dall’essere un mero procedimento teorico ed astratto, una speculazione senza possibilità di riscontro concreto, l’organizzazione dello spazio è anche osservabile «dal vivo» e in un modo più semplice di quanto potrebbe pensarsi. Nelle pagine che seguono cercheremo di ripercorrere brevemente la storia di alcuni luoghi, di delineare gli eventi che ne hanno segnato particolarmente la storia ed il divenire e che hanno contribuito in modo più evidente di altri alla costruzione dell’identità territoriale specifica.

1. Via del Pratello

Ricostruire la storia di via del Pratello non è cosa facile né sbrigativa; i momenti salienti della vita di questo luogo non sono legati alle vicissitudini di un edificio o di una personaggio in particolare, non ruotano intorno ad alcun evento tanto rilevante da imporsi sugli altri né seguono un ordine cronologico che ne determini la direzione. Al contrario, la storia di questa affascinante via è fatta di tanti, tantissimi piccoli eventi dal cui insieme è nata l’identità di un luogo sorprendentemente diverso e particolare.

La prima istanza, risalire al significato etimologico del termine «Pratello», non assicura certezze né soluzioni definitive: l’opinione più diffusa ne vede l’origine dal latino pirus (pero), e ci riporta quindi ai primi momenti di vita della via, quando, nell’alto medioevo, non era più di un agglomerato di abitazioni intervallate da campi coltivatii. Possiamo cominciare a parlare di un vero e proprio borgo del Pratello solo a partire dal XII secolo, e non senza incertezze, quando presumibilmente i proprietari delle terre vendettero i possedimenti agricoli ai commercianti, agli artigiani e a tutti gli immigrati che in quel periodo dalle campagne si avvicinavano alla città, trasformando così l’assetto e l’aspetto della zona da prettamente rurale in semi-urbanoii.

Il carattere improvvisato, di non pianificazione del Pratello e il particolare momento storico che viveva l’intera città di Bologna tra XII e XIIIiii secolo, ben si prestano a contestualizzare questa zona come crocevia di eventi e personaggi inusuali. La fiorente città, resa vivace da un’intensa attività commerciale e dal via vai di studenti universitari, è meta di strani individui con ancor più strane attività. Gli Statuti del XIII secolo redatti dai governanti della città rendono ad esempio testimonianza della presenza, nel Pratello e in alcune zone limitrofe, di alcuni «impostori, finti ciechi, finti lebbrosi e finti frati di penitenza, che si facevano ospitare da persone caritatevoli […]. Costoro fingevano malattie e infermità per chiedere elemosine, da spendere in gozzoviglie nelle osterie della zona»iv.

Un borgo nato in modo precario, ai margini della prima cinta muraria di difesa della città, che ospita principalmente immigrati dalle campagne in cerca di miglior vita, artigiani, viandanti e impostori, un luogo insomma dalla spiccata vocazione popolare con tutto quanto da ciò può derivare, nel bene come nel male. Che la via fosse molto trafficata e quasi un’arteria della nascente periferia bolognese è dimostrato dall’esistenza e dalla brevissima vita che ebbe la Porta del Pratello, sorta insieme a quella di S. Isaia e murata già nel 1445 per esigenze difensivev.

Un avvenimento caratteristico si verifica nel 1568 quando nel Pratello vengono confinate le donne di piacere, aggiungendosi al già composito ambiente sociale e contribuendo all’immagine stilizzata della zona come di un sobborgo malfamato e popolato da violenti, disonesti, uomini e donne di malaffare.

Un detto locale che descrive al meglio la situazione e la realtà, certo un po’ romanzata ma per questo più affascinante, del borgo del Pratello recita: «al Pratello si piantano fagioli e nascono ladri»; quasi un commento ad una situazione di convivenza tra gente semplice dedita al duro lavoro e altre presenze, non ben identificabili, avvolte dall’oscurità come l’anima nera di un luogo.

Nel corso del tempo la commistione di genti dalle origini più disparate, cresciute fra rabbia, violenza ed espedienti per sopravvivere, genererà anche un tipo d’uomo che saprà trovare dignità nel lavoro onesto, svolto onestamente negli opifici sorti sul vicino Canale di Reno o destreggiandosi in piccole attività artigianali e commercialivi.

Un carattere essenziale di questa popolare via è la sua vivacità, il suo rappresentare la vita e la voglia di vivere. Come emerge dalle appassionate pagine di un breve e famoso libro sul Pratello «è esistito un altro Pratello fatto non di sole meretrici e protettori, non di soli ladri e ricettatori. In questo quartiere è nata anche la ribellione, la coscienza proletaria, l’antifascismo, la Resistenza. […] la tradizione dei borsaioli e dei filibustieri s’intrecciava con il desiderio di vivere, di cambiare»vii.

Scopriamo così un altro aspetto di questo luogo, quello della vita quotidiana, che nel tempo ha resistito e confermato una dimensione marcatamente popolare, svolgendosi intorno ad un centro geografico, il cosiddetto crùsel (incrocio tra via del Pratello e via Pietralata), tra famose osterie e cortili interni dove la gente si ritrovava, unita da una solidarietà che ai giorni nostri assume un sapore di mitologia e storia passata. Le osterie di via del Pratello hanno obiettivamente una certa rilevanza sociale; i racconti popolari ci trasmettono varie storie, al confine col fiabesco, come quella dei «fagioli a tempo» dell’osteria di Margheritona (meglio nota come Ghitòn) dove gli avventori non chiedevano una porzione ma un quarto d’ora di fagioli, cioè la quantità di legumi che sarebbero stati in grado di mangiare in quindici minuti seduti su di un tavolaccio in legno con i cucchiai legati al tavolo da una catena. Fra il XIX ed il XX secolo si contano ben otto osterie in via del Pratello, spesso accompagnate da luoghi per giocare a bocce, ritrovo di gente comune che dopo dure giornate di lavoro converge verso i luoghi di ritrovo.

Un luogo del borgo a suo modo centrale è il cosiddetto Cristo nero, una rappresentazione della crocifissione ancora oggi osservabile al numero civico 41, fortemente annerita dai fumi della strada (e della storia)viii e testimone di «vecchissime storie di rancori, di segreti amorosi e gelosie, di tensioni politiche, o azioni di miserabili affamati o di vendicatori sconosciuti. […] In un qualsiasi grigio mattino poteva accadere anticamente di trovare stecchito a terra in un mare di sangue, proprio sotto il Cristo nero, il corpo di un altro povero cristo accoltellato. Passavano di notte o di primo mattino – i fornai, i macellai, i facchini, i barrocciai, i muratori che andavano al lavoro. Anche i bambini sonnolenti e impauriti dovevano passare di lì per andare al forno, al mercato grande e alle altre destinazioni in cui la fatica nono risparmiava nessuno, nemmeno i fanciulli»ix.

Concludiamo questa breve presentazione con la testimonianza resa negli anni ’80 al Resto del Carlino da un anziano abitante della via, Arnaldo Guastaroba, una sintesi sincera e spassionata di una realtà oramai abbastanza lontana da poter essere messa da parte o peggio, rimossa.

Il Pratello, quello vero, iniziava al numero 54. Era la zona malfamata. Dicevano: tutti ladri. Bazzicavano qua da Romolo o da Ghitòn, due vecchie osterie e tutte le sere c’era la questura, ma non per fare retate, ma per accertarsi che fossero lì e non altrove. Da Ghitòn si mangiava bene. Tortellini, tagliatelle, tutto. Al tempo dei Morti venivano a mangiare da fuori anche quelli senza gambe, con le carrozzine tirate dal cane, un piatto di tagliatelle a loro, due al cane. Poi c’erano quelli che “andavano a galline”, che rubavano insomma, perché c’era miseria assai e si mangiavano anche i gatti […]. Da piccoli facevamo a sassate con quelli degli altri rioni. Da quelli di S. Carlino, dietro S. Rocco, ci difendevamo dietro una trincea fatta di pietre. Era il ’18. […] Ma ci si voleva un bene! Molti rubavano dai carri che passavano, ma poca cosa: noi ragazzi li aiutavamo perché sotto il portico di Romolo (all’angolo con via Piatralata) la domenica si ballava e loro ci davano le sigarette. Una volta ho visto due facchini fare a coltellate proprio qui. […] Adesso non c’è più niente: è tutta zavorra, i vecchi sono morti, il Toungèn se n’è andato via da poco, a 97 anni. È morto Sigfrido, il maestro di violino che vendeva le lamette in piazzòla, il tenore Bergamaschi. Le “donne di vita”, poche, frequentavano un vecchio bar che adesso è diventato un’osteria “bene”. Che squallore…»x.

2. Le tombe dei Glossatori

Poco distante da via del Pratello sorge la Basilica di San Francesco alla quale si accede dall’omonima piazza. Intorno all’abside, sul versante esterno, possiamo oggi osservare, da Piazza Malpighi, un giardino, un verde prato destinato a luogo di incontro e di ricreazione per adulti e bambini che vi trovano svago e alcuni giochi. All’interno di questo prato si ergono tre tombe monumentali, dette dei glossatori dall’attività dei personaggi che vi riposano. Nonostante il traffico e la confusione dei nostri giorni limiti la possibilità di gustare a pieno il fascino di questo luogo, la sua importanza, per la storia di Bologna e non solo, è estrema.

I glossatori furono dei maestri di diritto che tra il XII e il XIII secolo rinnovarono e innovarono lo studio del diritto giustinianeo con una imponente opera di esegesi, interpretazione e chiarimento sistematico dei testi giuridici allora noti.

[…] Con la voce glossatores si intendono di norma i maestri della Scuola di diritto che fiorì in Bologna lungo il corso dei secoli XII e XIII e che fu causa del diffondersi in tutta l’Europa dei rinnovati studi romanistici, della propagazione del diritto giustinianeo come norma fondamentale del vivere civile. Nelle voci «glossa» e «glossatori» si deve adunque riconoscere l’espressione più alta di quella esegesi delle fonti giuridiche romane che rese immortale la scuola bolognesexi.

La «glossa», per l’appunto, non è altro che il chiarimento o l’interpretazione di un dato termine o di un passo alla luce di criteri e metodi condivisi; un’arte nata tra le vie di Bologna che si è posta come una sorta di «ponte» tra il passato ed il futuro del diritto italiano. Non una semplice riscrittura in forma più moderna del vecchio diritto romano, ma un intervento sistematico, metodico e a suo modo creativo di un nuovo diritto nato in seno al vecchioxii.

Questa operazione di recupero dei testi di Giustiniano ebbe il suo centro nevralgico a Bologna e fu intorno ad essa che crebbe la celebre Scuola, il nucleo principale intorno al quale si svilupperà poi la vera e propria Università di Bologna.

È subito chiaro, quindi, che quando si passeggia per Piazza Malpighi i tre sepolcri dei glossatori Accursio, Odofredo e Rolandino dei Romanzi rappresentano ben più di un semplice monumento alla memoria, assistiamo invece a ciò che resta dei fondatori di una delle più antiche università del mondo e del diritto civile intero come oggi lo si intende nella nostra cultura. In altri termini, le tombe dei glossatori hanno una valenza simbolica ben definita e straordinaria per l’intera umanità (al di là del fatto che sia loro riconosciuta o meno).

Venendo ai monumenti, c’è da dire che l’esistenza delle tre tombe è stata tutt’altro che quieta. In origine, lungo il fianco settentrionale della basilica si stendeva un cimitero destinato ad accogliere frati, personaggi illustri e non. Possiamo immaginare quindi uno scenario del tutto differente rispetto a quello attuale. Un cimitero, che è arrivato a contare circa 400 tombe, circondato, a partire dalla fine del Cinquecento, da un portico che ne ha inglobato completamente le più esterne e del quale oggi possiamo osservare una minima parte conservata tra le tombe di Odofredo e di Rolandinoxiii.

Lo spazio rimanente venne inoltre occupato per 35 anni, a partire dal 1877, dal Mercato delle erbe, spostato da Piazza Maggiore perché ritenuto poco decoroso, prima della sua definitiva collocazione in via Ugo Bassixiv.

Fu solo verso la fine del XIX secolo che l’area prese ad assumere l’aspetto attuale. Sotto la presidenza di Giosuè Carducci e la direzione di Alfonso Rubbiani, tra il 1888 ed il 1893, si diede vita ad una grande opera di restauro dell’intera zona: le tombe del cimitero furono trasferite, tutte tranne quelle dei glossatori, all’interno della basilica, il portico venne abbattuto e le tombe di Accursio, Odofredo e Rolandino vennero reintegrate, in tempi diversi, nel loro aspetto originale, almeno nei tratti dei quali Rubbiani riuscì a rinvenire una qualche ricostruzione storica.

Sfortunatamente, parte delle pietre originariamente utilizzate per la costruzione delle tombe divenne inutilizzabile, distrutta o deperita a causa dell’inglobamento nel portico. Si dovette quindi procedere alla sostituzione e al reintegro con nuovi e relativamente fedeli materiali; ad ogni modo, parte degli elementi architettonici decorativi originari sono stati perduti per sempre.

3. La sinagoga in via de’ Gombruti

I segni che l’uomo imprime nello spazio possono avere le origini più disparate: guerre, movimenti culturali come la Scuola dei glossatori o sociali come quello del ’77, conflitti tra fazioni e quanto altro l’uomo sia in grado di mettere in atto nel tempo. Un esempio particolare, tra le altre possibilità, è costituito dall’arrivo, dal transito o dal permanere di culture diverse e, in grado variabile, distanti dalla specifica identità cattolica ed occidentale con la quale in linea di massima siamo socializzati fin dalla prima infanziaxv.Ogni cultura stanziata su di un territorio vi inscrive, per forza di cose, una parte del proprio orientamento nel mondo, della propria specificità esistenziale, del proprio rapporto con il o le divinità. Durante la vita quotidiana, non è difficile assistere alle fasi di «segnatura» dello spazio da parte dei gruppi sociali o etnici più disparati: osserviamo la costruzione di un edificio sacro o di un luogo di ritrovo; possiamo venire a conoscenza delle ricorrenze festive che lo animeranno; siamo invitati a partecipare a incontri tesi a comunicare la diversità; viviamo passo dopo passo l’integrazione del nuovo all’interno del nostro spazio e orizzonte culturale. Alla fine del processo, ciò che in principio ci sembrava «diverso» e «altro» non è più tale e lo si dovrà collocare in qualche zona interstiziale (più o meno centrale o periferico) della nostra organizzazione dello spazio (in quanto individui e in quanto società). Qualcosa di simile, usando la massima cautela analitica, può dirsi per le comunità ebraiche che in misura variabile vivono in Italia, a Bologna e negli altri centri urbani. Certamente nessuno, o pochi, penserebbero di dire che un ebreo non sia italiano per il semplice fatto di essere ebreo e nel caso delle comunità ebraiche in effetti la questione è molto più complessa rispetto al comodo schema lineare (come ogni schema) fin qui prospettatoxvi. Tuttavia, una sorta di sentimento di alterità imperversa, a volte quiescente, sulle nostre reazioni e modi di vedere non tanto gli ebrei ma la religione ebraica o il «popolo di Israele» intero.

In questo paragrafo ci occuperemo di un’istituzione di centrale importanza per la cultura ebraica, la sinagoga, che a Bologna ha sede in via de’ Gombruti.

Cominciamo da un dato preliminare: che cos’è una sinagoga?

Fino all’anno 70 dell’Era Volgare il centro indiscusso della religiosità ebraica fu il Tempio di Gerusalemme; al Tempio ci si dirigeva per le feste collettive e tra le sue porte si svolgevano le fasi più importanti del rapporto personale tra il fedele ed il suo dio. Se per gli ebrei di Israele e delle regioni vicine era possibile avere un rapporto «quotidiano» con il Tempio, non altrettanto poteva dirsi per quegli ebrei che, in seguito alle deportazioni assire e babilonesi, vivevano nella diasporaxvii e che non avevano preso parte al ritorno nella terra di Israele. Proprio dalla diaspora viene la prima testimonianza storica di una sinagoga, risalente al III secolo a.C. Cosa realmente significasse e rappresentasse la sinagoga per gli ebrei negli anni precedenti al 70 è cosa difficile a dirsi con una certa precisione. Di certo il Tempio era e rimaneva per tutti gli ebrei il centro della religiosità ed è lì che ci si recava per le feste più importanti e per le operazioni di culto fondamentali. In questo senso la sinagoga non ha mai usurpato le funzioni del Tempio, almeno finché è rimasto in piedi.

Un aiuto è dato dalla terminologia con la quale in Palestina e nella diaspora si indicava la sinagoga. Se, infatti in Palestina si usava il termine synagoge, riunione o comunità, nella diaspora si parlava invece di proseuche, preghiera e, per estensione, luogo in cui la preghiera si svolge. Due parole diverse che inquadravano contesti differenti, il primo legato all’idea di unione, non necessariamente cultuale, e riunione degli ebrei, il secondo invece centrato sulla valenza religiosa della sinagoga come luogo di preghiera. Quale che sia stata la specificità della sinagoga fino all’anno 70 della nostra era, dopo la distruzione il Tempio non verrà mai più edificato, il giudaismo intero vivrà una fase di profonda e vivace trasformazione e la sinagoga diventerà il principale luogo di culto, di preghiera, di insegnamento e di incontro per gli ebrei della diaspora come di Israele.

Veniamo ora alla presenza ebraica a Bologna. La prima testimonianza risale alla fine del IV secolo quando il vescovo di Milano, Ambrogio, venne a Bologna per presiedere al trasferimento delle salme dei martiri Vitale e Agricola dal cimitero ebraico alla basilica di Santo Stefano. Dopo un lungo periodo di silenzio, che non necessariamente corrisponde ad assenza, nella seconda metà del XIV secolo, momento di grande sviluppo culturale ed economico per la città, si hanno testimonianze di una massiccia immigrazione e del costituirsi di una comunità ebraica compatta stanziata nei pressi di Porta Ravegnana, nei pressi dell’odierno «ghetto». Pare che un’attività diffusa fosse il commercio di indumenti usati, come lascerebbe intendere la denominazione della Corporazione nella quale furono inseriti gli ebrei («Corporazione dei Drapieri – Strazzaroli – Pegolotti – Vaganti e Giudei»). L’apporto della comunità giudaica alla città di Bologna fu però ben maggiore:

Intensi furono i rapporti della Comunità Ebraica anche con lo Studio bolognese. Studenti ebrei si laurearono in Medicina a Bologna e professori ebrei insegnarono all’Università: testi di scienziati ebrei (Maimonide in particolare) furono adottati dallo Studio e studiosi ebrei tradussero testi di medicina dall’arabo in ebraico e latino e dal latino in ebraico e arabo. Jacov Martino fu chiamato a insegnare medicina per richiesta dello stesso pontefice Clemente VII e un altro docente, rimasto anonimo perché probabilmente ebreo, fu chiamato a insegnare Lettere ebraiche […]xviii

La comunità ebraica bolognese trovò dunque occasione di inserimento nel generale e vivace contesto culturale del tempo, contribuendo al progresso delle scienze e della Scuola bolognese.

Il clima della Controriforma, tuttavia, pose fine a questa proficua convivenza: dal 1555 gli ebrei furono confinati nel Serraglio (il «ghetto») e nel 1597 l’intera comunità fu addirittura cacciata dalla città.

Il rientro sarà possibile solo dopo la Rivoluzione francese grazie al clima di laica tolleranza. In principio, siamo ancora nelle fasi iniziali di un rientro dopo più di due secoli di assenza, il luogo di preghiera fu stabilito nella casa di un membro della comunità, Angelo Carpi, simbolicamente lontano dal ghetto, nei pressi di Piazza Malpighi. Ma quando, nel 1868, il figlio di Carpi fu diffidato dallo svolgere attività di culto dal proprietario dello stabile, la comunità si dovette trasferire in una angusta abitazione presa in affitto in via de’ Gombruti. Fu solo la benevolenza e disponibilità delle famiglie ebree più ricche di Bologna che consentì, negli anni successivi, l’acquisto della Casa de’ Gombruti, famiglia bolognese estintasi nel 1650, e nel 1877 si procedette all’inaugurazione della nuova sinagoga di Bologna, nata dalla ristrutturazione dello stabile progettata dall’ingegnere bolognese Guido Lisi.

Durante i primi anni del Novecento l’architetto Attilio Muggia ricevette l’incarico di progettare il rifacimento della sinagoga, compito che portò a termine solo nel 1928 e che fu vanificato dagli abomini della seconda guerra mondiale, quando la sinagoga venne rasa al suolo dai bombardamenti del 1943.

Passata la guerra, ma non il vuoto che aveva lasciato come una scia alle sue spalle, la ricostruzione della sinagoga assunse un significato ben più importante di quello cultuale, ricostruire significava adesso riaffermare la propria esistenza e il diritto ad esistere, testimoniare la fine di un incubo e il fatto di essere sopravvissuti ad un progetto «razionale» di estinzione di un popolo. Le parole di Sergio Josèf Sierra, Rabbino Capo della comunità ebraica bolognese dal 1948 al 1959, descrivono dal vivo la situazione storica ed emotiva:

Tutto era distrutto, il Tempio ridotto a un cumulo di macerie, l’edificio della Comunità pressoché fatiscente, ove mancavano persino i tubi del gas, ma – soprattutto – vi era una enorme tristezza per il vuoto lasciato da coloro che erano stati deportati. Vi era un senso di smarrimento generale. Questo significò, per me e per mia moglie, partecipare con enorme volontà, spirito di sacrificio e tanto entusiasmo, alla ricostruzione della piccola Comunità bolognese per concretare nuove condizioni storiche, per un’esperienza culturalmente ebraica e umanamente significativa. Gli ebrei dovevano riprendere la vita normale che gli eventi bellici avevano interrotto; dovevano riaffermare con dignità e forza la volontà d’essere Ebrei. Tutto ciò era necessario non solo per loro stessi, ma soprattutto per i loro figli. […] L’attività che i dirigenti del Consiglio e il Rabbino avevano di fronte era enorme: cercare di reperire fondi, riunioni su riunioni fino a notte, ricerca capillare d’ogni ebreo, rianimare la coscienza ebraica, attirare i bambini e i ragazzi alle lezioni e, nello stesso tempo, reperire le risorse per la ricostruzione del Tempioxix.

Solo nel 1953 la ricostruzione giungerà a termine e all’inaugurazione, nel ’54, prenderà parte anche l’ambasciatore di Israele a Roma Sasson a segnare un momento storico di rinascita e speranza.

4. Porta Lame

Porta Lame venne innalzata per la prima volta nel XIII secolo e, data la sua importanza per i traffici commerciali, già dal 1334 fu dotata di due ponti levatoi, uno per i pedoni e uno per i carri ed i cavalli. Indebolita nelle fondamenta da numerose infiltrazioni d’acqua, venne riedificata secondo nuovi canoni architettonici durante la seconda metà del Seicento richiedendo l’esorbitante spesa di 36.000 lire bolognesi.

Numerosi sono i resoconti di avvenimenti storici svoltisi al cospetto di questa imponente porta; forse il più macabro si verificò nel 1460, il 15 novembre, quando un uomo, tale Inghiliero di Mongardino, reo di omicidio, tradito da un amico attratto più dalla cospicua taglia (50 ducati d’oro) posta sulla sua testa che dal sentimento di fratellanza e solidarietà, fu consegnato alla forza pubblica, torturato sulle pubbliche vie, squartato, diviso in quattro parti (con una falce) che furono infine «distribuite» e appese in corrispondenza di quattro Porte della città tra le quali, per l’appunto, Porta Lamexx.

A parte questo raccapricciante episodio, appartenente ad un mondo ormai lontano e quantomai incomprensibile, la storia della Porta è legata indissolubilmente, nella memoria cittadina, alla celebre battaglia del 7 novembre del 1944 durante la quale alcuni nuclei partigiani combatterono vittoriosamente le truppe naziste e fasciste che occupavano da tempo la città militarmente e giursdizionalmente.

È interessante ricostruire brevemente il contesto di tale scontro, estendendo il discorso ad alcune considerazioni generali circa la situazione vissuta da Bologna nell’autunno del ’44.

Durante l’estate del ’44 si verifica un rientro in larga scala della popolazione emigrata durante l’inverno dalla città verso le campagne per paura dei bombardamenti. Motivo di questo controesodo sono due fattori: l’avanzare degli Alleati in Romagna con la conseguente speranza in una liberazione imminente e la decisione, mai ufficializzata, del podestà Mario Agnoli di dichiarare di fatto Bologna «città aperta». In cerca di maggiore sicurezza, un numero spropositato di immigrati fa ritorno in una Bologna che, a causa dei bombardamenti, ha perso circa la metà della sua potenzialità abitativa. Possiamo immaginare la situazione di caos generalizzato generata da questi fenomeni concomitanti. Circa 500.000 abitanti e 14.000 capi di bestiame costretti a convivere forzatamente in una città comunque ancora occupata e semidistrutta, soggetta a vessazioni e in preda alla confusione imperantexxi. La situazione precipita a tal punto che in autunno la Prefettura è costretta ad imporre il divieto temporaneo di immigrazione nella città.

Dunque uno scenario di guerra e distruzione, povera gente rifugiata tra le rovine di una città allo stremo, violenze arbitrarie che solo la guerra può concepirexxii, degradazione e quasi annullamento del valore della vita. La guerra!

Nel ’44 i nuclei partigianixxiii cittadini della settima Brigata GAP sono dislocati in due grandi basi: in via del Macello, alle spalle di Porta Lame, con 75 unità, e, in 230, tra le rovine dell’Ospedale Maggiore. Il 7 novembre, fin dalle prime ore del mattino, la base di via del Macello viene presa d’assedio dalle pattuglie tedesche, resiste agli attacchi sferrati con mitragliatori e cannoncini anticarro e, dopo l’intervento di un carro armato e un attacco con granate al fosforo, nel pomeriggio i partigiani vengono invitati alla resa. Nonostante le tragica situazione i gappisti riescono ad aprirsi un varco: nascosti dai fumogeni e coperti da un fuoco incessante, abbandonano la base passando per il canale di via del Porto e si disperdono per la città.

Verso le 18, 45 dello stesso giorno, i partigiani dell’Ospedale Maggiore, ignari dell’esito degli scontri del mattino, tentano un intervento in soccorso dei compagni di via del Macello. Si impossessano di via Lame e della Porta, giungono fino a via Riva Reno e via Azzogardino e capovolgono la situazione. Gli occupanti, una volta accerchiati, vengono dispersi durante la notte con cospicue perdite: 216 morti nazifascisti a fronte di 12 morti e 14 feriti tra i partigiani.

Al termine della guerra, il coraggio dimostrato dai cittadini in questo frangente vale il riconoscimento alla città della medaglia d’oro al valore militare.

A memoria del celebre scontro, l’artista bolognese Luciano Minguzzi modellerà nel 1952 due statue, il Partigiano e la Partigiana, riutilizzando, con un gesto di grande rilevanza simbolica, il bronzo in precedenza impiegato per un monumento equestre in onore di Mussolini. Le due statue vengono collocate in un primo momento nel parco della Montagnola e solo nell’autunno del 1986 troveranno una definitiva, fino ad oggi almeno, collocazione nel giardino della Porta che vide resistere e cadere i partigiani del 7 novembre.

5. La stazione di Bologna

Scrivere, o anche solo tratteggiare i caratteri salienti della stazione di Bologna richiede una sorta di sdoppiamento, una dissociazione e una separazione di due dimensioni che, forza del simbolo, proprio non riescono a convivere. La stazione di Bologna, come ogni altra, è innanzitutto un edificio, la realizzazione di un progetto, conclusasi nel 1864, e va come tale vista con gli occhi dello storico dell’arte o dell’architettura. Ma quella di Bologna è anche, diversamente dalle altre stazioni, un monumento che scuote dal profondo l’animo di chi si lasci ancora oggi coinvolgere dalle fotografie, dalle frasi e dalle altre testimonianze di un evento incredibile, talmente reale da andare incomparabilmente oltre ogni fantasia o immaginazione.

Consapevoli di questo insanabile conflitto di prospettive, possiamo cercare di ricostruire le fasi salienti del momento più importante della lunga vita della stazione di Bologna, l’esplosione della bomba, che, alle 10, 25 del 2 agosto 1980, ne ha devastato una parte considerevole causando la morte di 85 persone e 200 feritixxiv.

Ogni anno, durante i primi giorni di agosto la stazione di Bologna, come molti altri importanti snodi ferroviari, è particolarmente gremita dai lavoratori che fanno rientro nelle loro regioni per le ferie estive. L’estate del 1980 non fece eccezione; come sempre, immigrati, semplici turisti o lavoratori pendolari si affollavano per raggiungere le più varie destinazioni. Consapevole di ciò, qualcuno pensò bene di lasciare una valigia piena di esplosivo nella sala d’aspetto della seconda classe e di provocare un strage dalle dimensioni inauditexxv. La sala d’aspetto praticamente scomparve, la stazione fu sventrata dall’esplosione e anche un treno in sosta sul primo binario venne investito dall’esplosione.

Successe allora che da uno scenario di morte e devastazione nacque quanto di più vitale una società intera potesse generare e vivere: centinaia di soccorritori, vigili del fuoco, membri delle forze dell’ordine, impiegati delle ferrovie e gente comune che si trovava di passaggio presero in mano la situazione e, dimostrando una capacità organizzativa (auto-organizzativa) straordinaria, si adoperarono per il soccorso delle vittime, trasportando i feriti, rimuovendo i cadaveri e liberando la strada dalle macerie. Le parole dell’allora sindaco di Bologna, Renato Zangheri, sono quantomai indicative della realtà dei fatti:

[…] la città si era levata in un moto spontaneo di soccorso. I medici tornarono dalle ferie autonomamente e tutti si erano adoperati al meglio. Una città intera si era organizzata per le necessità del caso. Il piano dei soccorsi immediati, che fu unanimemente giudicato molto efficace, non esisteva. Un governo del nord Europa ci richiese questo piano perché lo aveva trovato straordinariamente efficiente ma, lo ripeto, non c’era. Ci limitammo a fare un lavoro di coordinamentoxxvi.

Sono oramai impresse nella memoria collettiva le immagini dei soccorritori, protetti dalle mascherine bianche per non respirare le polveri che subito intorbidirono l’aria; il loro intervento fu talmente efficiente che, a sera, il piazzale della stazione era già sgombro dai detriti. La mobilitazione generale ebbe dell’incredibile: i medici, come dice il sindaco Zangheri, rientrarono subito nelle loro mansioni, gli autisti degli autobus presero a fare la spola tra la stazione e gli obitori, in via Irnerio prima e, quando fu pieno, verso i vari ospedali.

Le cronache ci riportano alla memoria l’autobus numero 37, guidato fino a tarda sera da Agide Melloni, con le vetrate laterali coperte da lenzuola per evitare di mostrare lo strazio dei corpi privi di vita avviati verso la loro ultima destinazione.

[…] decidemmo di utilizzare l’autobus per trasportare unicamente i cadaveri, così da lasciare tutte le ambulanze disponibili per i feriti. Togliemmo dalle porte i malcorrenti ( le sbarre a cui ci si aggrappa per salire) per permettere ai corpi di passare ed io mi misi alla guida. Erano circa le undici di mattina: fino al pomeriggio trasportai le salme alla camera mortuaria di via Irnerio poi, quando non ci fu più posto, ci dirigemmo verso gli obitori degli ospedali. Dopo pochi viaggi decidemmo di applicare le lenzuola ai finestrini dell’autobus per evitare l’esposizione pubblica dei corpi senza vita che trasportavamo. Restai alla guida fino alle tre di notte […]xxvii

La città intera, insomma, prese parte al soccorso dimostrando tanto coraggio e forza di volontà da potersi plausibilmente affermare che la ricostruzione cominciò già negli istanti successivi alla deflagrazionexxviii.

I giorni immediatamente successivi alla strage non furono meno drammatici e fitti di avvenimenti: il pomeriggio del 2 agosto il Presidente della Repubblica Sandro Pertini raggiunse la città per portare il suo conforto alle vittime, la sera dello stesso giorno fu organizzata una manifestazione in Piazza Maggiore, il 4 agosto ne seguì una seconda e il 6, giorno dei funerali, Bologna fu letteralmente invasa da gente proveniente da tutta l’Italia per porgere l’estremo saluto alle vittime. Il funerale, come ben presto anche le manifestazioni, assunse un carattere di protesta contro le istituzioni; solo 8 delle 85 vittime furono sepolte con i funerali di Stato, i familiari delle altre lo rifiutarono. Più in generale si vennero a fronteggiare, una volta attutita l’emergenza dei primi soccorsi, la sinistra istituzionale, del Partito Comunista e dei sindacati, e quella extraparlamentare che insisteva sulle responsabilità nell’accaduto della sfera pubblica intera.

Oggi, di questi indimenticabili momenti rimangono solo alcuni segni visibili. Un orologio, lo stesso che nel 1980 rimase fermo a segnare l’ora della strage; una crepa: l’immaginario squarcio causato dalla bomba e un piccolo tratto del pavimento originario corrispondente al punto in cui venne collocata la bomba. Il primo giugno 1981 venne fondata l’Associazione tra i familiari delle vittime della strage che da allora si è battuta perché tante vite non fossero dimenticate. Il CEDOST, Centro di documentazione storico politica sulla stragismo, fondato in tempi più recenti, funge oggi da centro di documentazione sul fenomeno dello stragismo e sulle organizzazioni terroristiche ed eversive. Infine, ogni anno, il Due agosto Bologna rivive il ricordo nella commemorazione ufficiale della strage, nello stesso spazio, il piazzale della stazione, così brutalizzato nel 1980.

6. Via Mascarella e l’omicidio Lorusso

Quanto si è detto e si può dire a proposito della stazione di Bologna, il cui valore simbolico e comunicativo è stato in gran parte determinato da un evento particolare che tende a prevalere sugli altri (anche se tendenzialmente solo nel giorno della sua commemorazione), può, cambiando soggetto e condizioni, dirsi per via Mascarella, stretta e caratteristica via della zona universitaria sul cui selciato perse la vita un giovane studente in medicina. Anche in via Mascarella, l’affermarsi di un segno dominante su tutti gli altri che la storia ha voluto imprimere nello spazio di questa città ha richiesto lo spargimento di sangue, sintesi e commento di tutta un’epoca e di una cultura di cui tenteremo nel seguito una presentazione.

Bologna, come peraltro l’Italia intera, negli anni ‘70 è molto diversa rispetto ad oggi: non è ancora una città universitaria come la si intenderà nei decenni successivi ma muove dei passi decisivi in questa direzione. Molti studenti ne affollano i portici, aumentano i fuorisede e aumenta il fabbisogno abitativo al quale risponde, allora come oggi, un mercato famelico più che solidale e compiaciuto del prestigio che la città trae dall’essere «universitaria». Più in generale, in Italia comincia a farsi notare una nuova realtà sociale, con i suoi problemi, le sue ragioni e le sue rivendicazioni. È una sorta di «seconda società», definizione mutuata dalla letteratura dell’epoca, costituita da lavoratori precari, lavoratori in nero, intellettuali dequalificati dal mercato del lavoro, studenti universitari sfruttati e altre figure che hanno in comune il fatto di non godere di nessuna tutela e garanzia né per il futuro, né per il presente. Dalla moltitudine scomposta di queste figure relativamente nuove per i tempi, nasce un movimento di protesta, frastagliato e non unitario, che sarà ricordato come il «movimento del ‘77».

È l’immagine di un movimento che avrebbe rappresentato una «seconda società» di emarginati, «non garantiti», proletari del lavoro «nero», disoccupati, in contrapposizione netta a una «prima società» fatta di occupati stabilmente, di integrati, di lavoratori «garantiti». […] Che la spiegazione del movimento in termini di «non – garantiti» e/o di emarginati sia stata imposta o meno dall’esterno, è innegabile che essa ha avuto come fondamento dei motivi e dei dati realixxix.

Ad aggravare la situazione concorre un fenomeno assai noto alle scienze sociali, la burocratizzazione e il conseguente irrigidimento di istituzioni e movimenti. Negli anni Settanta accade infatti che gli organismi tradizionalmente chiamati a difendere i diritti dei lavoratori e dei più indifesi, vale a dire i partiti politici e i sindacati, non sono in grado di rappresentare questa nuova realtà disomogenea e precaria; non riescono a fungere da canali di catalizzazione, o assopimento, delle inedite forze sociali in campo che, per forza di cose, trovano altri strumenti di protesta e rappresentazione. Ci si trova in un certo senso fuori dalla classica lotta di classe tradizionalmente vista come contrapposizione tra «padroni» e «lavoratori»; adesso la società del benessere ha generato i primi esempi di «precario», inedita identità di chi è talmente invisibile da non trovare protezione neanche presso le istituzioni a ciò preposte.

Il ’77, dal punto di vista dei contenuti culturali, può essere visto come un ponte tra il ’68 e i giorni nostri; possiamo vedervi in nuce tante sfumature e caratteri che oggi vivono il loro momento d’oro, come il problema già ricordato del precariato e della «solitudine sociale» di molte categorie deboli e non rappresentate; vi troviamo delle importanti caratteristiche dell’università di massa come il caro-casa, l’importo della retta universitaria, la possibilità di integrazione nelle città universitarie e così via.

Ad ogni modo, i protagonisti principali del movimento del ’77 sono stati gli studentixxx e questo ci riporta in via Mascarella, nel marzo del 1977, in una mattina di fine inverno nella zona universitaria di Bolognaxxxi.

Verso le dieci dell’11 marzo in un’aula dell’Istituto di Anatomia dell’Università di Bologna in via Irnerio si svolge una riunione del movimento cattolico Comunione e Liberazione; alcuni studenti di medicina, militanti di sinistra, vi si avvicinano e vengono malamente respinti. Il passaparola, a questo punto, moltiplica le «forze» in campo e si arrivano a fronteggiare due gruppi di militanti, CL da una parte e studenti di sinistra dall’altra. Qualcuno dall’Istituto avverte le forze dell’ordine di quanto sta accadendo, dopo circa 30 minuti arrivano carabinieri e polizia in gran numero e avviene il «contatto» con i manifestanti dei collettivi che, avendo la peggio, cercano di disperdersi in direzione di Porta Zamboni. Nel documento di un Collettivo di controinformazione leggiamo la cronaca dei fatti che seguono:

Ritornando verso via Irnerio, i compagni vengono bloccati da una autocolonna di PS e carabinieri ed è a questo punto che un carabiniere spara ripetutamente. Per difendersi viene lanciata una molotov contro la jeep, causando un principio di incendio. Poi, in via Mascarella, un gruppo di compagni che ritornava verso l’università incontra una colonna di carabinieri proveniente da via Irnerio: a questo punto il compagno Francesco Lorusso (militante di LC) viene freddamente ucciso. Era rimasto a studiare fino alle 12, 30 e solo allora era sceso in strada. I carabinieri caricano il gruppo in cui si trovava Francesco e partono le prime raffiche di mitra: alcuni compagni scappano verso l’università, risalendo via Mascarella. […] Francesco, sentendo i primi colpi, si volta mentre corre con gli altri e viene colpito trasversalmente. Sulla spinta della corsa percorre altri dieci metri e cade sul selciato, sotto il portico di via Mascarellaxxxii.

Oggi, di questa vicenda non rimane molto di visibile: rimangono i dieci metri che dall’incrocio tra via Irnerio e via Mascarella portano al muro su cui sono incisi i segni del giorno nefasto; rimane il muro stesso, con il colore originario, le sue ferite coperte da una lastra di vetro e una targa commemorativa; rimane un giardino intitolato al giovane studente di medicina e un’associazione con il suo nome che si occupa, come avrebbe fatto il giovane laureando in medicina Francesco Lorusso, di iniziative nel campo sanitario.

Eppure, per chi conosce la storia di quei giorni, via Mascarella è diventata altro dalla caratteristica via del centro storico, altro dalla accattivante offerta di pubblico intrattenimento che pur offre, altro dalla zona universitaria fatta di libri ed esami da superare. Una via ed un muro, involontari spettatori, divenuti protagonisti di una memoria flebile ma ancora viva.

Né gli eventi accennarono a migliorare in qualche modo, tutt’altro. L’uccisione di Lorusso scatenerà una serie di conseguenze come la chiusura forzata, il giorno stesso, di Radio Alice; nei giorni successivi una serie di manifestazioni, più o meno violente, per il centro storico di Bologna lascerà un segno in termini di danni agli edifici e ai centri commerciali; il 12 marzo verrà assaltata un’armeria e domenica 13 i carri armati e non gli studenti universitari si aggireranno per una via Zamboni militarizzata e deserta.

Verrebbe da chiedersi fino a quando quel povero muro saprà raccontarci ancora di questi tristi giorni.

7. Il Bestial Market

Quando, verso la fine dell’Ottocento, l’espansione della città impose il trasferimento del mercato del bestiame, per problemi igienici e incompatibilità ambientale, dal cosiddetto Foro Boario (corrispondente più o meno all’odierna Piazza Trento e Trieste), l’area esterna alle mura compresa tra le porte San Felice e Lame non era che scarsamente popolata e presentava un paesaggio prevalentemente agricolo e rurale.

La ricerca di una nuova sede del mercato e la sua nuova localizzazione nella zona occidentale della città fu dettata da esigenze di tipo strategico e dal bisogno di «stare al passo con i tempi». Era chiaro infatti che il commercio del bestiame in una città centrale e importante sul piano nazionale come Bologna si sarebbe dovuto svolgere in corrispondenza di un collegamento ferroviario che avrebbe facilitato e velocizzato l’arrivo, la commercializzazione e il trasferimento delle bestie.

La scelta cadde dunque sull’area oggi nota come Bestial Market per una serie di motivi quali la scarsa densità abitativa della zona, la sua prossimità con lo scalo ferroviario e la presenza nelle vicinanze, alle spalle di Porta Lame, del mattatoio.

Ad essere incaricato del progetto fu l’ingegnere Emilio Saffi, figlio del celebre Aurelio, il quale procedette ad uno studio preliminare dei maggiori mercati del bestiame italiani per trarre ispirazione circa la funzionalità e le scelte strategiche che avrebbero dovuto animare il suo lavoroxxxiii. Scelte che saranno dettate da esigenze di razionalità economica ma non solo, data l’evidente monumentalità e finezza architettonica dei nuovi edifici.

L’ingresso con l’arco e le colonne sta a dimostrare la preoccupazione del progettista nel dover conferire aspetto monumentale alla «facciata» dell’intero complesso. Siamo all’inizio del ‘900 e i nascenti impianti industriali oltre a porre problemi di organizzazione degli spazi produttivi pongono quesiti su come progettare gli edifici. Nascono nuove tipologie, nuove committenze con nuove esigenze, anche di rappresentanza. In questo caso il committente è il Comune, un’istituzione che reclama nelle sue opere dignità architettoniche fatte di archi, colonne e «ornamamentazioni»xxxiv.

Sulla scorta delle esperienze acquisite con lo studio dei maggiori mercati italiani, si procedette quindi, dal 1897, alle procedure di esproprio dei terreni ai privati e ai lavori di costruzione dello stabile. Il risultato finale fu subito apprezzabile per dimensioni e qualità; con i suoi 22.500 metri quadrati il mercato del bestiame di Bologna superò infatti notevolmente l’estensione di molti dei modelli cui si era rifatto lo stesso Saffi (i mercati di Firenze e Torino infatti superavano di poco i 17.000 metri quadrati). La spesa finale si aggirò intorno alle 600.000 lire, poco più di quella prevista, di 575.000 lire, a causa di una precedente sottovalutazione del numero dei terreni da espropriare. Il nuovo mercato fu inaugurato nel maggio del 1902 e, per un periodo di tre anni, si procedette all’osservazione e alla sperimentazione del suo funzionamento (che non darà, lo vedremo, gli effetti desiderati e attesi).

Ripercorriamo l’organizzazione degli spazi come si presentava.

Come si è detto in precedenza, l’area del mercato era precedentemente semirurale, si dovettero quindi approntare le infrastrutture necessarie, le strade in primo luogo. Via dello Scalo fu costruita per consentire la comunicazione con lo scalo ferroviario ed altre strade ancora servirono da collegamento con i viali di circonvallazione. A est, verso via Berti, c’era l’ingresso principale, unico accesso nei giorni di mercato: un arco monumentale collegato a due edifici tramite porticati; a ovest invece, lungo via dello Scalo, sorgeva un complesso di tre fabbricati uniti tra loro da edifici più bassi e terrazzati. Leggiamo la descrizione di Emilio Saffi:

In fondo al mercato lungo il lato di ponente, si trova nel mezzo un gruppo di tre fabbricati riuniti fra loro da due corpi di fabbrica più bassi, coperto con terrazze. Il fabbricato di sinistra contiene al pian terreno e al primo piano locali per uso di caffé e ristorante, quello centrale racchiude un solo ambiente per la borsa e adiacenti a questa sono i locali per le singole contrattazioni, nel fabbricato a destra sono collocati al piano terreno gli uffici di posta, telegrafo, e quelli per il servizio ferroviario, e al piano superiore un appartamento per uso di abitazione. Alle due estremità di detto lato di ponente del mercato esistono due piani caricatori per il carico e lo scarico del bestiame dai carri della ferroviaxxxv.

I restanti 14.500 metri quadrati, non coperti, furono destinati al mercato vero e proprio.

Nonostante gli sforzi profusi e le ingenti spese, le aspettative furono in gran parte deluse; nei tre anni di sperimentazione infatti, la quantità di transazioni concluse e lo stesso afflusso di bestiame al mercato furono nettamente inferiori rispetto alle attese. Emilio Saffi ne individuò le cause nella non disponibilità del collegamento ferroviario con lo scalo più vicino, elemento determinante sul quale in sede di progettazione si era fatto affidamento per il decollo del mercato, e nel basso importo dei diritti di sosta e di entrata che il Comune impose (differenziandosi in questo dai mercati di altre città come Firenze e Roma che pretendevano dai fruitori contributi maggiori).

Nel dopoguerra, la crescente urbanizzazione dell’area ripropose lo stesso problema di compatibilità ambientale risolto poco meno di un secolo prima con il trasferimento del mercato nei pressi di Porta Lame. Il 1974 segnò così la fine dell’attività del mercato, la sua chiusura e una nuova collocazione a S. Caterina di Quarto.

Seguono anni di transizione, durante i quali l’area ha cambiato decisamente aspetto, come la città intera peraltro; per un certo periodo di tempo uno dei capannoni centrali è stato la sede del Livello 57, il centro sociale trasferito poi sotto il ponte di via Stalingrado. Ben presto gli spazi disponibili sono stati ristrutturati dall’Università e adibiti a sale studio o aule per le lezioni; il caseggiato che corre lungo il lato sud dell’area è oggi un centro residenziale per studenti di proprietà dell’ARSTUD e, in tempi recenti, è stato inaugurato il giardino intitolato a Francesco Lorusso, lo studente di medicina ucciso durante le contestazioni del 1977.

i Il nome «Pratello» si è imposto solo in tempi relativamente recenti (per essere precisi, viene istituito con delibera comunale dell’11 giugno 1878), i documenti del XIII secolo parlano sempre e solo di un Burgus Peradelli (mostrando un’evidente richiamo al pirus). «L’analogia con la Madonna del Piratello presso Imola, dove si venerava una vergine apparsa sopra una pianta di pero, è convincente […]. Dove poi fosse questo pero, a cui la lunga, stretta e anche un po’ “mitica” strada prende il nome, la storia non lo dice: probabilmente eran più d’uno, tanto da formare un pereto, accanto ai frassini di via Frassinago o i noci di via Nosadella, tutte piante che non hanno più a che fare con un presente di cemento e di asfalto», Le strade di Bologna, Newton, Roma 1989, p. 680.

ii Cf. Vincenzi S., Il Pratello. Bologna, storia e rinascita di una strada, Grafis Edizioni, Bologna 1993, p. 44.

iii È in questo arco di tempo che a Bologna fiorisce la celebre Scuola di diritto, con tutte le conseguenze del caso: aumento degli stranieri, studenti perlopiù, e della richiesta di beni e servizi cui l’artigianato poteva far fronte (ibid.).

iv Ibid.

v Per un altrettanto breve periodo di tempo via del Pratello è stata anche parzialmente attraversata dal fiume Reno le cui acque fornivano l’energia necessaria ai quattro mulini situati in zona. Nel 1208 il corso del fiume verrà deviato verso la Grada, seguendo un percorso forse più favorevole. La presenza di mulini indica comunque via del Pratello come punto di convergenza dei contadini che dalle campagne si dirigevano verso la città per macinare e vendere i cereali.

vi Le strade di Bologna, op. cit., p. 682.

vii Righi O., Il Pratello, Vangelista, Milano 1978, pp. 6-7.

viii Le raffigurazioni a carattere religioso sono oggi quasi del tutto assenti da via del Pratello, non così nel passato quando, stando alla ricostruzione di Odette Righi, se ne contavano addirittura una dozzina (ibid. p. 8).

ix Ibid.

x Intervista tratta da Le strade di Bologna, op. cit., p. 683.

xi Gualandi G. e Sarti N. (a cura di), Studi e testi di storia giuridica medievale, Giuffrè, Milano 1997, p. 617.

xii «Sui testi giustinianei così riveduti e sistemati indugiavano i glossatori nella loro congiunta attività di studiosi e di dottori perfezionando sempre più i loro metodi di indagine e creando, oltre la glossa, tutta una serie di nuovi generi di letteratura giuridica. […] Si leggeva anzitutto il testo giustinianeo, esponendone il casus e lo si riassumeva (summa) notandone al contempo le regulae, che eventualmente se ne potessero ricavare, per poi applicarle al caso concreto, la intentio o la conclusio, rilevandone le concordanze, le analogie e le antinomie con altri testi e cercando di spiegarlo o comunque di rendersene ragione, rammentando o proponendo casi pratici che potevano trovar regola nel testo esaminato (questiones) ed infine ancora riassumendo quanto si era rilevato, discusso o richiamato dettando altresì la conclusione emersa e talvolta tentando anche l’indagine sulla ratio legis. E non mancavano certo le disputationes fra i doctores e perfino tra questi e gli scholares», ibid. pp. 618-619.

xiii Per una ricostruzione del portico e la localizzazione delle tombe dei glossatori si veda Rivani G., Aspetti e singolarità dell’architettura bolognese nel periodo romanico: le Tombe dei Glossatori, Strenna storica bolognese (1963), pp. 224-240.

xiv Bernabei G. (a cura di), San Francesco (Le meraviglie di Bologna 7), Santarini, Bologna 1993, p. 93.

xv E con la quale ci troviamo a fare conti inevitabbimente e al di là di una esplicita adesione di fede.

xvi Il mondo ebraico e quello cristiano sono indissolubilmente legati dalla storia: Gesù era un ebreo, la dottrina che da lui ha preso vita è intrisa di elementi ebraici e la nostra cultura è profondamente debitrice a quella ebraica. Ogni distinzione tra un «noi» ed un «loro» è legittima solo dopo che si sia assunta questa realtà come un dato di base imprescindibile.

xvii «Diaspora» significa dispersione e indica l’effetto delle deportazioni cui furono soggetti gli ebrei, a più riprese, tra l’VIII ed il VI secolo a.C. ad opera dell’impero assiro prima (orientativamente tra il 740 e il 640 a.C.) e di quello babilonese (tra il 610 e il 585).

xviii Pardo L. (a cura di), La sinagoga di Bologna. Vicende e prospettive di un luogo e di una presenza ebraica, Pendragon, Bologna 2001, p. 9.

xix Ibid. p. 18.

xx Cf. Costa T. e Tassinari Clo O. (a cura di), C’era Bologna vol. III, Newton, Roma, p. 652.

xxi Per dare un’idea della situazione e degli innumerevoli rischi cui andava incontro la popolazione nel 1944 può bastare un dato. Senza contare le vittime di azioni militari, nel 1944 ci sonostati, a Bologna, circa 200 incidenti stradali con protagonisti i mezzi dell’esercito tedesco che sfrecciavano per le vie della città. «Siamo, cioè, all’interno di una casistica di violenze “estranee” al confronto fra gli opposti schieramenti, comprendente in massima parte ferimenti accidentali, liti, aggressioni, uccisioni, scontri tra individui per ragioni non identificate, nonché centinaia e centinaia di investimenti stradali da parte, quasi sempre, di mezzi militari tedeschi ai danni di civili (soprattutto donne e anziani)», Preti A. – Maggiorani M. – Rossi A. – Onofri N.S. – Michelini L. – Romagnoli R. (a cura di), Porta Lame e le battaglie bolognesi dell’autunno 1944, ANPI Bologna Editore, Bologna 2005, p. 17.

xxii A Bologna sono rimaste note, tristemente note, le «imprese» di Renato Tartarotti, capitano della Compagnia Autonoma Speciale, e della sua banda ai danni dei malcapitati che venivano interrogati in Questura, vittime di torture e maltrattamenti inauditi. In una testimonianza depositata per denunciare la violenza della Compagnia si legge: «al termine degli interrogatori quasi sempre le persone che uscivano dalla stanza, presentavano tutte indistintamente i segni della violenza subita sul corpo e sul viso e trattavasi: di ecchimosi, di macchie di sangue, tumefazioni ed a volte anche alterazioni degli occhi; le persone stesse, in gran parte, non erano in condizioni di precedere e deambulare se non con l’appoggio o degli agenti o dei loro compagni stessi che dovevano sorreggerli fino alla cella ove venivano ricondotti», ibid.

xxiii La situazione di caos non impedisce l’affermarsi di un rinnovato ottimismo né frena l’impazienza per la liberazione definitiva: tra il giugno e l’ottobre del 1944 il Bollettino militare del Comando unico militare dell’Emilia-Romagna (CUMER) registra ben 899 azioni partigiane di un certo rilievo (cf. Porta Lame e le battaglie bolognesi dell’autunno 1944, op. cit., p. 19).

xxiv Durante il secondo conflitto mondiale la stazione di Bologna dovette subire la distruzione parziale dell’ala destra in seguito ai bombardamenti; ironia della sorte, in quell’occasione, era il 25 settembre 1943, gli orologi si fermarono all’incirca alla stessa ora del più recente e ricordato evento (cf. Gottarelli E., La Stazione Ferroviaria di Bologna, il Carrobbio 8 [1982], 156-162, p. 156).

xxv L’attentato alla stazione di Bologna è il più grave mai registrato in Italia.

xxvi Venturoli C. e Boschi M. (a cura di), Bologna, 2 agosto 1980. Il racconto della strage, Yema, Modena 2005, p. 86.

xxvii Intervista a Agide Melloni, ibid. p. 49.

xxviii A motivo di tanta efficienza e solidarietà, il 31 luglio 1981 la città di Bologna verrà insignita della medaglia d’oro al valore civile.

xxix Bernocchi P., Compagnoni E., D’Aversa P., Striano R., Movimento settantasette storia di una lotta, Rosenberg & Sellier, Torino 1979, pp. 10-11. Ovviamente parlare di una seconda società che si contrappone alla prima è una semplificazione; va perciò trattata, come ogni semplificazione, con estrema cautela onde evitare di aggiungere ulteriori elementi di confusione e snaturamento del fenomeno.

xxx «Sono, […], quei settori giovanili, studenteschi, intellettuali, operai che rifiutano la sottomissione agli interessi dello sviluppo capitalistico così come la cessione, ai possessori privati e «pubblici» del capitale, della parte più rilevante del proprio tempo di vita (le fatidiche otto ore) a risultare vittime di un particolare disagio e i protagonisti di un costante e profondo atteggiamento di rivolta. […] Il soggetto dominante del movimento ‘77 – ’78 è rimasto sì lo studente, ma come figura assai differenziata e disomogenea, nella quale la consapevolezza del destino incombente di disoccupato e sottoccupato “intellettuale” finisce per prevalere di gran lunga sulle caratteristiche delle proprie condizioni di studio e di formazione», ibid. pp. 15-16.

xxxi Il resoconto dei fatti è ricostruito in base alla documentazione contenuta nel libro Piccola città …, a cura del Centro di Documentazione “Gabbia/no”; del Collettivo universitario “Space/Maker” e del Collettivo di giurisprudenza, Bologna 1987.

xxxii Ibid. p. 20.

xxxiii Riportiamo di seguito alcune osservazioni e considerazioni dell’ingegnere bolognese: «Molti particolari di costruzione riguardanti specialmente le stalle di sosta e di osservazione, i locali per la macellazione e la lavorazione delle carni, i piani caricatori e il binario di collegamento con la ferrovia, l’impianto e il servizio per l’acquedotto ed altri mancanti o soltanto accennati nel progetto, si sono dovuti studiare, completare o modificare in seguito, durante la esecuzione dei lavori. Non poco mi giovarono per completare gli studi e la esecuzione le osservazioni fatte … nei mercati di Firenze e di Roma che ebbi occasione di visitare … e specialmente in quest’ultima città sull’esercizio di quel campo boario e del vicino mattatoio», Commissione di lavoro del Quartiere Saffi (a cura di), Per conoscere il Saffi. Un quartiere tra centro e periferia, Bologna 1980, pp. 116-117.

xxxiv Ibid. p. 121.

xxxv Ibid. p. 119.

Add a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *