Massimo Pavarini – Le mani che cingono l’Equatore. Per un modello restituivo della penalità

La filosofia della penalità moderna si è fondata su una “economia della parsimonia”. Un esercizio del castigo vincolato a criteri tanto di autolimitazione sistemica (quelli garantistici della “pena minima”) che di limitazione extra-sistemica (quelli finalistici della “pena utile”). Come dire che anche la sofferenza legale moderna doveva sottostare alla logica del risparmio e dell’investimento. E in ciò forse si coglie l’elemento più radicale di contrapposizione con la pena pre-moderna, quella – come ci insegna Foucault – segnata appunto dalle virtù diseconomiche della magnificenza, dell’ostentazione e della dissipazione.

Possiamo interrogarci se la penalità nella post-modernità – nonostante l’enfasi posta sui valori della razionalità burocratica, della efficienza e del calcolo – finisca per dovere fare affidamento ad una “economia dell’eccesso” dei castighi, insomma ad una penalità squisitamente espressiva.
L’ipotesi è suggestiva e su essa merita riflettere.

In effetti quanto oggi sembra potersi cogliere come elemento nuovo è la perdita progressiva di peso delle élite intellettuali a favore di quelle politiche sulla cultura della penalità. E nei sistemi democratici, forse per la prima volta la penalità diventa oggetto significativo (in alcuni casi persino il principale) dello scambio politico tra elettori ed eletti, tra opinione pubblica e sistema della politica. E in ciò forse è possibile cogliere un profilo di democratizzazione della politica criminale, sia pure nel senso nuovo offerto dalla “democrazia d’opinione”.

Nella democrazia d’opinione ad essere esaltata è la percezione emozionale del soggetto ridotto alle sue emozioni più elementari: paura e rancore. E il nuovo discorso politico tende sempre più ad articolarsi su queste emozioni, di cui singolarmente il sistema di giustizia penale è in grado di dare coerente espressione, nella funzione di produzione simbolica di senso attraverso il processo d’imputazione di responsabilità.

Non è tanto la crisi della politica tout-court che determina l’effetto dell’espandersi del penale come risposta alla domanda sociale di penalità, al contrario: si tratta di una riqualificazione della politica, della volontà di instaurare contropoteri là dove prima non ve ne erano, di ritrovare la sovranità là dove essa era stata concessa, ovvero espropriata, ai/dai sistemi burocratici di rappresentanza. Come dire che la costruzione sociale che produce l’espansione della domanda di risorsa penale è solo il sintomo più vistoso di una trasformazione e crescita della democrazia oltre la funzione della rappresentanza fornita dallo stato di diritto. Ma ciò su cui non si è sufficientemente riflettuto sono le precondizioni materiali che hanno reso possibile questo processo di emergenza di una domanda di penalità “così come la vuole l’opinione pubblica”, a cui in qualche modo il sistema della politica è oggi costretto a dare una qualche risposta.

E’ possibile che risponda a verità che i cittadini delle democrazie occidentali debbano confrontarsi con una esperienza nuova – soprattutto se consideriamo i livelli di sicurezza dalla criminalità nella seconda parte del xx secolo – che si può ritenere strutturale ai nuovi processi di globalizzazione: il rischio da criminalità si sta diffondendo (nel senso di “spalmando”) ed espone oramai la maggioranza dei cittadini e reiteratamente all’esperienza vittimologica. Le nostre società sono e sempre più saranno high crime societes, ove il rischio criminale per attentati alla proprietà non sarà più ristretto a pochi – in buona sostanza, come nel passato, ai membri della uperclass – ma esteso alla maggioranza dei consociati.
Le politiche di “legge ed ordine” e “zero tollerance” si iscrivono pertanto all’interno di un orizzonte miope di riproposizione di vecchie ricette a nuovi problemi. In assenza di una cultura adeguata per una società ad elevato rischio criminale si finisce per rispondere ai diffusi rischi criminali con lo strumento della penalità diffusa. Ma la scorciatoia repressiva presto si mostra illusoria: per quanto si possano elevare i tassi di carcerizzazione e penalità essi si mostreranno sempre inadeguati e per difetto a quelli della criminalità di massa. Da qui il rischio che la penalità sfugga progressivamente ad ogni finalismo utilitarista e ad ogni criterio razionale, per celebrarsi unicamente in una dimensione espressiva. E diventare pertanto smodata. Un eccesso di penalità, in un primo momento, a fronte di un eccesso di criminalità; una penalità simbolica (come la pena di morte, ovvero pene detentive draconiane in carceri di massima sicurezza) – in una seconda fase – di fronte all’amara constatazione che più penalità non produce più sicurezza dalla criminalità.
Il presente storico sembrerebbe alieno definitivamente da ogni idea di integrazione sociale dei condannati. E di conseguenza con ogni ipotesi correzionalistica. Per altro le modalità oggi dominanti nella società del libero mercato, non consentono neppure di pensare all’inserimento lavorativo come ad una condizione apprezzabile da un punto di vista di produzione dell’ordine sociale. Il nuovo status di prestatore di lavoro che si sta oggi affermando non evoca oggi l’immagine sociale tranquillizzante di chi, in quanto economicamente, politicamente e socialmente incluso, non sarà più o sarà sempre meno un trouble-maker.

Eppure, è proprio su questo punto decisivo, quando sembra che la partita sia definitivamente persa, di nuovo l’economia politica della pena lascia intravedere una nuova ipotesi di ripresa del discorso sulla penalità con finalità di integrazione sociale.

Mi sembra, infatti, che non sarà alla fin fine possibile confrontarsi con le nuove moltitudini eccedenti – penso in primis, alle masse crescenti di immigrati – perseguendo la sola strategia della esclusione; e nei confronti delle nuove masse crescenti di illegali – ancora, in primis, gli immigrati criminalizzati – attraverso politiche di sola neutralizzazione selettiva.

Insomma, mi sembra di scorgere qualche cosa che ha a che vedere con il senso di una vecchia storia, con quella cioè delle moltitudini eccedenti all’origine del processo di accumulazione capitalistica. Alla politica sanguinaria di distruzione, in una logica maltussiana, della popolazione eccedente, fece seguito quella elisabettiana della seconda metà del XVI secolo, fondata appunto sul disciplinamento coatto alla disciplina della subordinazione attraverso il grande internamento nelle workhauses. Certo la storia ben difficilmente si ripete, e quando succede la tragedia si tramuta in farsa. Non scorgo quindi all’orizzonte una riedizione di un lontano passato. Piuttosto la possibilità che le necessità di governo del disordine si pieghino alla logica di un nuovo disciplinamento delle moltitudini. Ed è possibile che in questa diversa logica, la topica della pedagogia penitenziaria possa conoscere una “nuova” stagione. Appunto una “nuova” stagione, con caratteri di assoluta originalità rispetto al passato.
Mi muovo a livello di ipotesi.

In estrema sintesi la modernità ci ha offerto due sole ipotesi compiute di legittimazione della penalità. Una prima di tipo contrattuale – appunto all’origine, nell’Illuminismo, in cui tutto si voleva fosse fatto per contratto – in cui la reazione punitiva doveva limitarsi a quella “giusta” della proporzione alla gravità del delitto; ed una seconda di natura utilitaristica, secondo la quale la pena doveva essere quella più “utile” socialmente e pertanto doveva perseguire scopi di prevenzione.
Modelli “ideali”, appunto ed ambedue oggi definitivamente superati, perché la pena oggi non si giustifica perché giusta nel retribuire, o perché utile, nel risocializzare.
Oggi, la post-modernità ci mette di fronte ad un diverso modello giustificativo della penalità: quello riparatorio/restitutivo.

Una ricca provincia nei cui confronti il sistema penale palesa oggi forti interessi di colonizzazione è quella approssimativamente ricomprendibile all’interno dei confini del “modello riparativo di giustizia”.
Delle diverse letture che la dottrina offre del “perché” dell’emergere, del restorative paradigm nei sistemi di controllo sociale (anche penale) in alternativa e/o competizione con quelli retributivo e rieducativo, una più di ogni altra mi seduce: il modello riparativo-mediatorio “rizomaticamente” si sviluppa – per effetto di una connaturata tendenza entropica dei sistemi di produzione di ordine, come appunto quelli di controllo sociale penale – oltre i confini dell’ordine stesso. Esso quindi germoglia confusamente ed imprevedibilmente in territori sociali progressivamente abbandonati dai sistemi formali di produzione di ordine. Intere periferie vengono lasciate di fatto sguarnite di ogni presidio effettivo offerto dalla legalità: il limite oltre il quale Hic sunt leones ritaglia a macchia di leopardo spazi sociali disomogenei e diversi ove l’ordine legale non si produce più. E in questi spazi “spontaneamente” germoglia o può germogliare un diverso ordine.
Un’altra delle grandi promesse della modernità non mantenute: la funzione disciplinare “avocata” dal sociale e monopolisticamente assunta entro i confini della legalità dal sistema di giustizia penale, si mostra sempre più incapace di “governare”, cioè di produrre ordine.
Due distinti processi favoriscono con effetti sinergici la dissoluzione del sistema di giustizia penale stesso: da un lato, la crescita elefantiaca del dominio del penale in ragione della crescita delle funzioni disciplinari proprie dello stato sociale; dall’altro lato, la crisi dei sistemi di socializzazione primaria e quindi di riflesso la produzione crescente di una domanda di disciplina formale.

Il dominio del sistema di controllo sociale penale è insomma troppo vasto per potere essere mantenuto, e pertanto metaforicamente sembra dovere esso pure rispondere alla seconda legge della termodinamica. Ciò che si produce al di fuori di esso, e a volte anche contro di esso – negli spazi del crescente disordine selvaggio – richiama alla mente veri e propri processi di rifeudalizzazione dei rapporti sociali. Conflitti e violenze intrafamiliari e nei rapporti di vicinato, degrado sociale, vandalismi, micro-criminalità nelle periferie metropolitane, intolleranze razziali producono sofferenze da vittimizzazione diffusa che si traducono in domande altrettanto diffuse di riaffermazione normativa, esse stesse poi inevase.

In questo contesto politico di dissoluzione, è quindi possibile assistere all’emergere di dinamiche sociali che si pongono come obbiettivo quello di responsabilizzare la società civile, di re-staurare capacità e virtù di autoregolamentazione dei conflitti che beneficiano di un ampio capitale di “simpatia sociale”.
La messa in scena pubblica della “mediazione” si colloca così in questo scenario di ampia adesione consensuale alla “presa in carico” “informale” delle situazioni problematiche di fatto abbandonate dai sistemi formali di controllo. La sua più genuina espressione si realizza pertanto nell’adesione ad un modello di mediazione “autonomo-comunitario-deprofessionalizzato”. La sua crescita “spontanea” e “disordinata”, investe segmenti diversi e disomogenei di presa in carico delle problematicità, attraversando i confini formali dell’ordine legale “tradizionale”: civile, amministrativo, penale. La retorica giustificativa del suo imporsi è socialmente accattivante: informale, dolce, intelligibile, semplice, mite, di prossimità… sono termini di un lessico costruito sul genere “femminile” contro quello “maschile” di una giustizia formale, dura lex, incomprensibile, complessa, distante.

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