Intervista a Moni Ovadia
|Rapporto tra arte e impegno civile
Difficile strappare Moni Ovadia dalla trama fittissima di impegni delle sue giornate. Quando però lo si trova è disponibile e molto cortese. Al telefono parla con la stessa felicità verbale che brilla sul palcoscenico.
Queste righe sono un pallido riflesso della sapienza paradossale delle sue risposte.
Che ruolo può svolgere la creazione artistica nella costruzione di se stessi “come un vero essere umano”?
Il mio grande maestro di teatro, Tadeusz Kantor, una volta spiegò la ragione per cui nel suo dramma “La classe morta” metteva dei manichini sulla schiena degli attori, che impersonavano dei revenants, degli spettri chiamati a ripetere riti svuotati di ogni” senso. Kantor disse: “Nous sommes les tueurs de notre enfance”, siamo gli uccisori della nostra infanzia.
I suoi personaggi portavano su di sé quei manichini come noi portiamo in spalla il cadavere dei bambini che siamo stati. L’opera d’arte si sforza di recuperare la grazia, l’emozione, lo stupore della nostra infanzia, uccisi dalla nostra permanenza in una società fondata sullo sfruttamento, sul dominio dell’uomo sull’uomo.
Il riso, il paradosso comico, il capovolgimento ironico di ogni prospettiva sono una risorsa a disposizione degli oppressi per consolarsi delle angherie, o un’arma di liberazione?
Sono l’uno e l’altro: lo strumento dell’umorismo ebraico, un riso autodelatorio,
assomiglia a quella che io, con la libertà che si può prendere un attore, ho deciso di definire una
“critica della ragione paradossale”. È un modo di illuminare un altro piano della realtà, di ribaltare le situazioni precostituite per sconfiggere la violenza, e una risorsa per tenere l’occhio su di sé e sconfiggere la disperazione. C’è una storia che ho raccontato in Vai a te stesso, su un piccolo, macilento ebreo polacco che viene torturato dagli sbirri della Gestapo. Ma ecco che squilla il telefono: è una voce di donna che sbraita all’orecchio del nazista frasi incomprensibili in polacco. Il tedesco in preda al panico ordina al malcapitato ebreo di ascoltare e tradurre. Allora quello, sfinito e sanguinolento com’è, si mette alla scrivania, prende la cornetta dalla mano del suo aguzzino, allunga le gambe sul tavolo e dice: “Hallo? Qui parla Yankele Rabinovic della Gestapo… Dite pure”. Anche in situazioni senza via d’uscita; l’umorismo permette di ridimensionare perfino la propria disperazione di riconsegnarla ad una luce umana. Senza umorismo, come si potrebbe vivere dopo la Shoah, e dopo tutti gli orrori della storia dell’umanità?.
Come viene declinata la questione della laicità nella tradizione ebraica a cui ama fare riferimento?
L’ebraismo è laico. Grazie a Dio abbiamo i nostri fanatici ed integralisti, come in tutte le famiglie che si rispettino. Ma l’ebraismo è laico perché non ha dogmi, nemmeno sull’esistenza di Dio. Si può essere ottimi ebrei anche essendo atei. Nella Gemara si attribuisce a Dio un’affermazione come questa: “Magari si dimenticassero di me ma rispettassero la mia Torah!”. Purtroppo l’ebraismo non lo conosce quasi nessuno, gli ebrei per primi. È un’ortoprassi, un agire in modo retto che mira alla fratellanza universale. Vedi Abramo che si spinge fino a contrattare con Dio come in un suk della spiritualità, disputando su quante persone salvare da Sodoma e Gomorra, il che comporta una pari dignità fra creatura e creatore. È un patto, non una sottomissione, ed un patto si fa tra eguali. Abramo è il più grande rivoluzionario nella storia dell’umanità perché sente Dio come l’irrompere di una voce interiore che impone la centralità dell’umano, il rispetto del diritto di ciascuno alla propria specifica dignità, l’economia di giustizia dell’umanesimo. Che poi Dio sia presente o no è del tutto irrilevante, almeno per me. Il rebbe Nachmann di Breslov, il Kafka del chassidismo, diceva “se cercate il Dio del monoteismo, cercatelo nella sua completa assenza.
Nel suo ultimo spettacolo, tratto da L’armata a cavallo di Babel, vi sono due figure di ebrei che si confrontano con l’ideale rivoluzionario e le sue sanguinose contraddizioni: in quale si riconosce?
Io mi riconosco nella contraddizione e nel paradosso. Il problema che si affronta in quel dialogo
è quello stesso che Che Guevara aveva risolto col sentimento: “Bisogna essere duri senza perdere la
tenerezza”. Cioè bisogna saper lottare, saper contrastare anche duramente il dominio e l’oppressione, ma senza dimenticare che l’essere umano è fragile, inaffidabile, contraddittorio. Una povera creatura disastrata e disastrosa. Già, il rivoluzionario non può non essere duro, ma a che punto ci si deve fermare? Del resto, quanto agli esiti della Rivoluzione Russa che è al centro del mio spettacolo, devo sottolineare che secondo me Stalin non è stato un comunista né un marxista ma piuttosto l’ultimo Zar che ha elaborato una sua soluzione modernizzante per salvare l’assolutismo: lavoro schiavistico di massa, cristianesimo secolarizzato e depravato nel culto della personalità e nel mausoleo di Lenin, liquidazione sistematica di tutti gli oppositori politici, comunisti, anarchici e rivoluzionari! Per primi, proprio come facevano gli Zar. E poi l’iconoclastia, colla distruzione sistematica delle immagini di Trotzki, Radek, le opere d’arte all’indice, e infine il caso Lysenko, che è un po’ il caso Galilei dell’URSS: un ciarlatano che diceva di aver trovato la teoria marxista-leninista della natura e che in nome del dogma devastò letteralmente la genetica sovietica, che negli anni ‘40 era all’avanguardia. Forse è proprio nel caso Lysenko che va trovata una delle cause profonde del crollo economico del sistema sovietico.