Settantasette. Il Movimento dei Movimenti

Per alcuni trentotto anni sono solo un soffio, per altri possono essere lunghi più di un secolo.

Era il 1977, ma quello che si percepiva era che si chiudeva un secolo, il Novecento. Si chiudeva con una critica radicale, trasversale, diffusa a quegli elementi culturali che avevano distinto il XX secolo ed erano divenuti elementi di crisi e di ostacolo alle energie che sorgevano dalla società civile.

Furono la critica alle ideologie, omnipervasive e dogmaticamente impermeabili al mutamento, e la critica alla politica, intesa all’epoca come elemento totalizzante nella vita del soggetto, a contrassegnare l’indirizzo d’azione del movimento. Si voleva “riconquistare il privato”, inteso come preminenza dell’autonomia del soggetto, della sua intelligenza e della sua creatività rispetto al dominio del modello fordista dell’individuo produttore e consumatore.

Molti furono i fattori di propulsione del movimento del Settantasette. La spinta potente che veniva dall’esperienza del femminismo, anzitutto, senza dubbio uno tra i protagonisti assoluti della transizione del nostro paese verso la modernità nel superamento del paradigma patriarcale e sessista che regnava incontrastato, e che purtroppo oggi, nella forma della mercificazione del corpo femminile, sembra di nuovo occupare l’immaginario collettivo. E poi la capacità del movimento di anticipare le principali direzioni del mutamento, ad esempio comprendendo appieno l’importanza della questione dell’intelligenza tecnico-scientifica spogliandola della sua pura funzionalità produttiva per investirla di quel valore culturale e politico che si è espresso, in questi ultimi anni, nell’emergere delle straordinarie potenzialità della rete e delle tecnologie della comunicazione.

Nell’ambito di una crisi del modello riformista emiliano che all’epoca mostrava solo i primi segnali, ma che appariva comunque lampante, il movimento non si tirò indietro dalla dialettica, anche estrema, con la classe dirigente cittadina. La critica si rivolse al problema dei non garantiti, e in particolare a quanti, nelle università, acquisivano un determinato “valore d’uso”, con quello che ne conseguiva in termini di liberazione dell’individuo, ma che al momento dell’ingresso nel mercato del lavoro erano riconosciuti solo in base al loro “valore di scambio”, attraverso un meccanismo di immobilizzazione delle competenze individuali e di predominanza del privilegio di classe e di famiglia che ancora oggi costituisce uno dei principali ostacoli allo sviluppo civile ed economico del paese. I giovani del Settantasette compresero e misero in pratica, il ruolo centrale della creatività come motore del mutamento e la sperimentazione di un nuovo linguaggio, come sta a dimostrare l’esperienza di Radio Alice. Si puntò il dito contro la mancata risposta della città e della sua classe dirigente a un problema come quello degli alloggi per gli studenti, ancora oggi più scottante che mai. Il movimento comprese fra i primi, la crisi della rappresentanza partitica e ne fece una parole d’ordine. «Gui e Tanassi sono innocenti, siamo noi i veri delinquenti»: dietro questo slogan stava tutta la percezione di una spaccatura fra partiti e società civile che, anziché ridursi, si è allargata sino a divenire oggi il vero nodo della politica italiana. Eppure quei giovani rimasero inascoltati, come, dall’altra parte, rimase inascoltato, persino all’interno del suo partito, Enrico Berlinguer quando pose in tutta la sua gravità la “questione morale”, dimostrandosi profetico nella sua anticipazione degli effetti di un meccanismo di governo informale e clientelare che sarebbe esploso di lì a quindici anni con il crollo della prima Repubblica. A dimostrare quanto siano stati lunghi questi trentotto anni stanno le interpretazioni del Settantasette in cui il movimento è genericamente letto con le lenti del terrorismo che in quegli stessi anni imprigionava l’Italia nella spirale della violenza

Eppure il movimento capì da subito come il terrorismo esprimesse qualcosa di radicalmente diverso ed estraneo rispetto al progetto che perseguiva, e fu ben attento a tracciare i confini con i gruppi terroristi dovunque fosse possibile. Sembrava chiaro che il fenomeno degli omicidi e dei rapimenti era strumentalizzato da chi occupava il potere nello Stato per appiattire sull’orizzonte indistinto della violenza le energie e le idee che uscivano dagli uomini e dalle donne del Settantasette e spegnerle con il ricorso indiscriminato alla repressione.

Il Movimento del Settantasette fu un movimento di liberazione nei termini più ampi possibile: liberazione culturale e sociale, liberazione di energie, liberazione del soggetto dagli schemi dell’ideologia e del mercato.

Chi lo ha vissuto lo sa bene. E questa consapevolezza ha il dovere di trasformarsi, ovunque può, in critica dell’esistente.

Nuovamente

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