Stefano Canestrari – Nuove problematiche del diritto penale

Nella storia della moderna scienza criminale ricorre di frequente la parola «crisi». A mio avviso, questo rilievo non deve sorprendere perchè l’evoluzione del diritto penale rappresenta il prodotto di un continuo stato di “tensione” tra prevenzione e garanzia; è il risultato di un equilibrio perennemente instabile tra l’istanza di difesa sociale ed il rispetto del diritto individuale.

 

E’ opportuno soffermarsi a riflettere — in questa sede “non accademica” — sulle conquiste della scienza penalistica negli ultimi decenni. Occorre, soprattutto, essere pienamente consapevoli dell’importanza del consenso raggiunto riguardo all’idea-guida dello strumento penale come extrema ratio.

Il percorso che conduce ad un’effettiva valorizzazione di questo criterio — del dettame della sussidiarietà — non può essere tracciato in poche righe. Qui mi preme osservare che tale opera presuppone un consolidamento dei risultati raggiunti sul piano dei principi e su quello delle categorie che delineano il volto del moderno diritto penale.

Per ciò che riguarda il primo aspetto, è necessario salvaguardare ed estendere l’applicazione dei principi costituzionali in materia penale, siano essi di natura formale (legalità, riserva di legge etc.) o di natura sostanziale (offensività, colpevolezza etc.). In relazione alle categorie si deve optare per una ricostruzione tassativa in grado di riflettere la preesistente dimensione empirica che caratterizza alcune nozioni fondamentali della parte generale del diritto penale (ad es., imputabilità, dolo etc.).

 

Occorre, quindi, sforzarsi di delineare i compiti della scienza penalistica, che non può limitarsi ad invocare la rigorosa applicazione dei principi costituzionali. Il criterio del diritto penale come ultima ratio deve essere oggetto di verifiche e sorretto da nuove consapevolezze: gli esempi che abbiamo prescelto dimostrano in maniera evidente le attuali difficoltà di neutralizzare le irrazionalità della politica criminale.

A questo punto, non è possibile analizzare le proposte e i diversi percorsi di riforma che si possono intraprendere per affrontare la crisi “postmoderna” del diritto penale. Le dimensioni dell’intervento rendono preferibile riflettere esclusivamente su un profilo, che ritengo comunque di fondamentale importanza. Vale a dire: il ruolo che deve svolgere lo studioso contemporaneo di diritto penale, allo scopo di non affidare la questione criminale ad istanze meramente “simboliche” — mediatiche ed elettorali — prive di un controllo razionale.

Si tratta, a mio avviso, di compiere sforzi nuovi e consistenti al fine di superare il tradizionale isolamento del cultore di diritto penale. In tale prospettiva, non ritengo più sufficiente un modello “integrato” di scienza penalistica in grado di verificare le elaborazioni teoriche nella realtà processuale e di recepire le istanze critiche della criminologia.

Nella società postindustriale “del rischio” occorre progettare qualcosa di più e di diverso: si deve costruire un modello “aperto e condiviso” di scienza penalistica, che chiede l’ausilio e reclama l’assunzione di responsabilità anche di studiosi di altre discipline. In modo necessariamente schematico, segnalo che l’”apertura” e la “condivisione” devono avvenire in quattro direzioni, per recuperare alle discipline penalistiche il carattere di scienze umani e sociali, anzichè di strutture concettuali meramente formali.

a) Il penalista deve collaborare con i cultori degli altri rami dell’ordinamento giuridico. In particolare, il richiamo ad un uso parsimonioso della pena richiede un’intensa cooperazione con gli studiosi del diritto amministrativo e del diritto civile, per individuare soluzioni sanzionatorie efficaci ed alternative a quella criminale. Di frequente prese di posizione ideologiche a favore dell’assoluta liceizzazione di condotte pericolose — nei confronti di beni giuridici meritevoli di tutela — “preparano il terreno” ad (“inevitabili”) risposte incentrate sulla repressione penale.

Soltanto un confronto serrato con le altre discipline giuridiche consente di progettare — insieme — un modello integrato e più ampio di tutela, un diritto “sanzionatorio” allargato, dove si può ridurre in modo significativo lo spazio dello strumento penale.

b) È necessario che il penalista àncori la ricostruzione delle categorie del reato e della pena su solide basi verificabili sul piano empirico-criminologico. Il secondo “abito” che il cultore delle discipline penalistiche deve indossare è quello di attento ed instancabile osservatore dei contributi delle scienze umane, sociali e statistiche (dalla psicologia alla medicina; dalla sociologia giuridica all’epidemiologia; dalla scienza della valutazione del rischio all’economia politica).

Il sapere empirico dovrebbe sorreggere sempre le proposte di riforma elaborate dallo studioso di diritto penale. A ben vedere, proprio il superamento della tradizionale ostilità delle scienze criminali alle verifiche empiriche può costituire un passaggio decisivo per il perseguimento dell’obiettivo prioritario: e cioè l’affermazione del carattere rigorosamente sussidiario dell’utilizzo delle pene detentive.

c) La terza “giacca” dell’abbigliamento del penalista contemporaneo deve essere utilizzata per le “trasferte”. Qualsiasi progetto di riforma deve essere preceduto non soltanto da una profonda conoscenza della storia delle scienze criminali, ma anche da un metodo comparatistico che miri a comprendere come operino davvero gli altri sistemi penali in action.

d) Infine, il penalista contemporaneo deve attrezzarsi ad esaminare i concetti che caratterizzano la trasformazione “postmoderna” del diritto penale. A questo proposito, ritengo di particolare interesse la nozione di «dignità della persona umana», per il significato che essa riveste all’interno di tutte le discipline penalistiche (diritto penale; diritto processuale penale; diritto penitenziario; criminologia; medicina legale, etc.).

Il carattere astratto di tale nozione impone al penalista di segnalare i rischi di una tendenza alla “idealizzazione” degli oggetti di tutela penale (ad esempio: si devono incriminare tutte le tipologie di maternità surrogata — anche se la prestazione è gratuita e ispirata a ragioni di solidarietà — per salvaguardare la dignità della donna). Al contempo, però, le nuove forme di aggressione alla persona — dalle manipolazioni genetiche, alle varie forme di schiavitù nei confronti di donne, minori, stranieri — invocano una precisazione del contenuto di questa espressione.

Lo sforzo di conferire un’identità “storico-sociale” al valore della dignità umana deve avvenire nel rispetto dei principi di tolleranza e di pluralismo, evitando apriorismi ideologici. Il penalista deve affrontare tale opera di definizione, che può essere svolta in modo proficuo soltanto se il carattere di laicità del diritto penale viene affermato nell’ambito di un dialogo costruttivo con i diversi punti di vista etici e religiosi.

In definitiva, un modello “aperto e condiviso” di scienza penalistica pone in evidenza che l’applicazione del criterio dell’extrema ratio non è una questione di esclusiva pertinenza degli studiosi e degli operatori del diritto penale. Si tratta di un principio di civiltà che deve trovare attuazione tramite un incessante lavoro di ricerca, in cui risulta indispensabile il contributo delle diverse discipline culturali e scientifiche coinvolte nell’opera di regolamentazione della società.

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