Valerio Guizzardi – Il carcere postfordista L’ “illegalità legale” dell’universo penitenziario italiano

L’Associazione Papillon ha detto e ripete che la migliore garanzia dei diritti dei detenuti si avrà soltanto quando ci sarà una legge nazionale che riconoscerà anche a questa categoria di persone il diritto di associarsi liberamente per confrontarsi sui problemi del carcere con tutti i livelli istituzionali: dai Municipi alle Regioni, dalle Commissioni Parlamentari al Ministero di Grazia e Giustizia. Esattamente come avviene in tutti i più diversi ambiti comunitari (siano essi posti di lavoro, quartieri, ospedali, caserme, caseggiati, scuole etc.), rivendichiamo che anche i cittadini detenuti possano avvalersi di questo diritto senza per ciò essere sottoposti a pressioni, ricatti, trasferimenti forzati e altre punizioni di vario tipo. In definitiva, anche questa è una questione di civiltà giuridica e commette un errore, a nostro avviso, chi ne sottovaluta l’importanza.

Un ottimo passaggio transitorio in questa direzione sarebbe stata anche l’instaurazione, da parte di tutti i Consigli Regionali, di Commissioni di controllo sulle carceri di loro competenza territoriale. Commissioni che sarebbero state composte da Consiglieri regionali di tutte le forze politiche e al cui lavoro quotidiano avrebbero potuto partecipare rappresentanti dei funzionari e degli operatori delle carceri, e soprattutto rappresentanti delle più grandi associazioni dei detenuti. Chiunque può ben capire che commissioni così composte avrebbero potuto moltiplicare il potere ispettivo che già oggi appartiene a ogni Consigliere regionale, ma soprattutto avrebbero potuto moltiplicare la capacità d’individuazione e risoluzione dei reali e più urgenti problemi che affliggono i vari istituti penitenziari, senza rischiare di essere ingannate dai classici “specchietti per le allodole” che esistono in ogni carcere.

Purtroppo, a causa di troppe e inutili timidezze politiche anche questo passaggio non si è riusciti ad ottenerlo, ma ad ogni modo la nostra associazione è comunque favorevole all’insediamento dei Garanti comunali e regionali, pur essendo consapevole che essi, per quanto importanti, sono in un certo senso una goccia nel mare della battaglia di civiltà portata avanti pacificamente in questi anni dalla Papillon e da migliaia di detenuti e liberi cittadini.  Cosa intendiamo per «battaglia di civiltà»? Vorremmo, al proposito, proporre alcune delle considerazioni che stanno alla base del nostro agire e delle sue modalità.

Il contesto economico-politico

In questa particolare fase politica nella quale sta faticosamente transitando il nostro Paese, in cui tutto fa pensare che la passata maggioranza parlamentare abbia dichiarato guerra alla società civile praticando una sorta di sovversione dall’alto, è sotto gli occhi di tutti la sistematica mortificazione della dignità e dei diritti delle cittadine e dei cittadini detenuti. Che tale questione sia da sempre particolarmente problematica (su questo nessun Governo passato è innocente) è un fatto. Che oggi le condizioni di vita all’interno delle carceri siano prossime all’emergenza umanitaria è un altro ancor più drammatico fatto. In definitiva in     questi ultimi anni il Ministero di Grazia e Giustizia si è sottratto totalmente ai suoi doveri, primo fra tutti garantire il pieno rispetto dei più elementari diritti umani all’interno delle sue carceri. Rammentiamo che l’Italia ha già collezionato negli anni diverse condanne e richiami severi da organizzazioni umanitarie come Amnesty International e dal Comitato per la Prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa a causa del trattamento inumano nei confronti dei propri detenuti.

Naturalmente, nel nostro ragionamento, vogliamo andare oltre le pericolose performances del precedente Ministro della Giustizia. Ci appare evidente come egli costituisca soltanto un modesto atomo di cui è formato il gigantesco iceberg della negazione dei diritti. Si tratta di una mostruosità umana e giuridica la cui massa è implementata, giorno dopo giorno, da un paradigma produttivo, oggi globale, che assicura ricchezze inusitate a pochi ricchi e nuove povertà a una sterminata moltitudine di donne e uomini in ogni angolo del pianeta. Stiamo parlando del neoliberismo, che nel nostro Paese una certa sinistra, scrollatesi di dosso le sue origini storiche, pretenderebbe addirittura di governare, e una destra che con autoritaria arroganza ne dispiega sull’intera società tutto il potere distruttivo.

Riteniamo che in una società veramente civile e democratica non può essere il profitto d’impresa, l’estrazione di plusvalore ad ogni costo il valore assoluto, che si erge a ideologia egemone e dominante. Fenomeno ancora più evidente oggi allorché il modo di produzione postfordista non mette più a valore soltanto il tempo di lavoro ma l’intera esistenza dell’individuo, in quanto affida il primato della produzione di ricchezza alla messa a valore delle sue capacità linguistiche, di relazione e di cooperazione sociale. È la produzione di merci a mezzo di linguaggio. È il sapere generale sociale (general intellect) a essere messo in produzione, riducendo così i corpi e le menti a pura merce.

Uno dei tratti distintivi dell’odierno paradigma produttivo è la flessibilità della prestazione lavorativa (immediata o immateriale) dove la forza-lavoro è assunta secondo le esigenze dei picchi di produzione e licenziata nelle fasi di calo della stessa. Assistiamo così a una crescente precarizzazione generale delle condizioni di vita dei produttori, perché alla discontinuità della prestazione lavorativa corrisponde la discontinuità del reddito. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: impossibile programmare il proprio futuro, non si può accendere mutui-casa, costituire nuovi nuclei famigliari, fare figli qualora lo si desideri, risparmiare per poter affrontare contingenze difficili, né quant’altro sta alla base della materialità indispensabile alla conduzione di una vita anche minimamente dignitosa; le nuove povertà avanzano a ritmo incalzante.

Ora, si presume che in una democrazia avanzata lo Stato, nella sua funzione di mediatore, debba farsi carico della difesa della parte più debole dei suoi amministrati. Nel nostro caso sarebbe stato indispensabile da parte del Parlamento emanare una serie di provvedimenti volti da una parte a regolamentare equamente il mercato del lavoro inibendo la sua devastante capacità di sussunzione reale e formale della vita dei produttori, dall’altra a mettere in campo il potenziamento del Welfare portando la sua efficacia all’altezza dei tempi.

Sgomenti, assistiamo invece all’esatto contrario: il Welfare (frutto delle lotte dei lavoratori costato lacrime e sangue) è sistematicamente demolito attraverso la privatizzazione selvaggia di ogni servizio al cittadino. Il dominio del mercato sulle istanze vitali e più profonde dell’intera società costituisce un processo di metastatizzazione che, lentamente ma inesorabilmente, porta alla distruzione di quel complesso di relazioni sociali e umane sulle quali la res publica è costituita, e al degrado del sistema ecologico sul quale essa vive.

Da qui derivano, come già detto, nuove povertà, marginalizzazione ed esclusione sociale in preoccupante crescita e una pericolosa percezione collettiva del no future. Impossibile non capire come tutto questo aumenti il rischio di devianza in chi, privato di un reddito anche minimo, ha l’esigenza di sopravvivere. Basterebbe indagare le biografie dei detenuti per comprendere come la marginalizzazione e l’esclusione sociale siano la maggior causa di devianza.

Come risponde lo Stato a questa situazione in caduta libera? Esclusivamente con politiche penali, carcerizzazione, stravolgimento del Codice Penale con nuove fattispecie di reato o riesumandone altre, anacronistici residui del ventennio fascista, aumento delle pene anche per i reati minori, restringimento delle misure alternative alla detenzione. Il neoliberismo ha una precisa politica di controllo sociale: l’esclusione. I poveri, gli uomini e le donne espulsi dal mercato del lavoro vanno tolti dalla vista e relegati ai margini. Lo Stato, di conseguenza, usando il circuito carcerario come una discarica sociale s’illude di nascondere “lo sporco” sotto il tappeto. Mentre le soluzioni, a nostro avviso, sarebbero ben altre: per prima cosa occorre una radicale inversione di tendenza che sostituisca le politiche penali con politiche sociali di prevenzione, di cui alcuni punti insostituibili sono il reddito di cittadinanza (diretto e indiretto) e un provvedimento che porti a un equilibrio equo la dialettica tra lavoro vivo e capitale.

 

Il Carcere

Ma ora vorremmo estrarre dal contesto generale succintamente descritto un frammento al quale la nostra associazione, per sua genesi, dedica il proprio lavoro: il carcere; con l’intento di dimostrarne l’inutilità e il danno sociale.

Chiunque conosca il carcere sa che è impossibile una sua pur latente valenza educativa. Basterebbe leggere Sorvegliare e punire di Foucault per rendersi conto che dall’800 a oggi poco è cambiato circa la metodologia trattamentale volta a considerare il deviante come un animale da ri-addestrare. Il sistema pedagogico rimane fondato sul rapporto premio-punizione, mentre sarebbe necessario, per i cittadini detenuti, elaborare la propria esperienza e usare questa come base per modificare i propri comportamenti.

Al contrario, gli unici elementi che fornisce il carcere per smettere di delinquere sono la paura della punizione e la ricerca del premio. E questo meccanismo è del tutto controproducente: nessuno matura una coscienza critica e autocritica attraverso il carcere. È difficilissimo che questo accada. In più, dato lo stato di illegalità diffusa che vige in quei luoghi di sovraffollamento inumano, le continue vessazioni e spesso le violenze fisiche e psicologiche che i detenuti subiscono da parte di chi, per legge, dovrebbe invece limitarsi alla custodia in base all’art. 27 della Costituzione, creano nei detenuti stessi un sostanziale passaggio percettivo da custoditi a vittime. Il sentirsi vittima non porta certo il detenuto a intraprendere un percorso critico volto a considerare la devianza come disvalore da rifiutare; al contrario lo conduce a generare soltanto un profondo rancore contro le istituzioni e la società che, una volta libero dopo aver scontato la pena, lo spinge a commettere reati ancora maggiori di quelli già compiuti.

Siamo convinti che in ogni detenuto ci sia il sovrapporsi di due condizioni negative pregresse alla carcerazione: una è quella dell’esclusione sociale che tutti quanti, specie nelle grandi città, conoscono. L’altra è, in generale, l’ideologia indotta da un paradigma produttivo e dal modello sociale che esso ha creato, che porta le persone a rincorrere l’arricchimento ad ogni costo. Anche attraverso la commissione di reati. Se non interviene un meccanismo che spezzi questo cortocircuito che noi chiamiamo feticcio del denaro, è chiaro che le persone, anche dopo l’uscita dal carcere, continueranno a reiterare i reati. La recidiva, infatti, in Italia, è uno dei maggiori fattori di entrata in carcere (rientro).

Il carcere provoca solo regressione psicofisica, disperazione e rabbia. Il carcere è una fabbrica di criminalità. Questo e solo questo è il punto cardine sul quale il Parlamento e l’intera società civile dovrebbero interrogarsi.

 

Morire di carcere

Non stupisce, detto ciò, che i suicidi all’interno delle carceri siano 19 volte più numerosi che all’esterno. Ma molto spesso si nasconde un suicidio anche dietro molti altri episodi, come le morti da overdose. E non bisogna dimenticare che vengono classificati come suicidi solo quelli che vanno “a buon fine” dentro le mura del carcere. I tentati suicidio, insieme agli atti di autolesionismo, sono ogni anno numerosissimi.

Da qui a parlare di sanità in carcere il passo è breve: all’interno delle infermerie degrado, violenza, abbandono, sporcizia, mancanza di farmaci (compresi i salvavita), insufficienza strutturale di personale medico e paramedico. Detto altrimenti: una pena aggiuntiva. In spregio all’art. 32 della Carta costituzionale, il quale individua il diritto alla salute e alla cura come uno dei diritti fondamentali del cittadino, quindi senza distinzione alcuna tra liberi e privati della libertà personale.

La Costituzione recita all’art. 27: »Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Ma nessuno o quasi si occupa di quest’aspetto. A parte alcuni parlamentari, che per pura coscienza si sono presi a cuore il problema, e alcune meritevoli cooperative sociali e associazioni di volontariato che si occupano di svolgere attività dentro al carcere o del reinserimento degli ex detenuti.

Dal basso qualcosa sta cambiando

«La grande riforma dell’Ordinamento Penitenziario del 1975 è stata scritta con il sangue dei detenuti». Se citiamo questa frase non è per facile retorica, né per attirare indebita compassione. Lo facciamo perché essa, ai tempi, fu quasi un luogo comune; appariva in ogni commento fatto a proposito delle lotte dei carcerati dei primi anni ‘70, che circolava tra tutte le componenti dell’allora sinistra extraparlamentare. La quale, sola, quelle lotte aveva tenacemente sostenuto dall’esterno. La citiamo perché quel conflitto rimane scritto, nella storia sociale del nostro Paese, come uno dei più sanguinosi del dopoguerra.

Per chi ha vissuto quel periodo è impossibile dimenticare i filmati dei telegiornali e le foto della stampa che ritraevano centinaia di detenuti disperati seminudi sui tetti delle carceri in rivolta mentre lanciavano tegole sugli uomini in divisa di sotto. Tra i rivoltosi vi furono numerosi morti a causa di cadute dai tetti e uccisi dalle forze dell’ordine. Centinaia furono i feriti gravi, alcuni riportarono danni permanenti a causa dei pestaggi inusitati subiti dalla custodia come punizione a rivolte finite.

Oggi, a tanti anni di distanza, le insostenibili condizioni di vita e la richiesta di giustizia che allora furono causa delle sanguinose rivolte dei detenuti non solo non sono cambiate per niente, ma si sono fortemente aggravate. Dal 1970 ad oggi il numero di detenuti è più che raddoppiato, superando abbondantemente il massimo contenibile dichiarato dallo stesso Ministero. Naturalmente viene spontaneo chiedersi per quali ragioni oggi non sono ancora deflagrate rivolte.

Non si può fare un parallelo col passato: dagli anni ‘70 è cambiata la società e la composizione sociale in base a un nuovo paradigma della produzione capitalistica che definiamo postfordismo. La soggettività di classe e l’ideologia egemone di liberazione che essa esprimeva con determinate modalità di lotta nel corso del fordismo, hanno lasciato il posto a una moltitudine ugualmente subalterna e conflittuale, ma straordinariamente frammentata, i cui contorni rimangono ancora in buona parte indefiniti e indagati.

Vediamo anche, però, come da questo magma di complessità, da Seattle in poi, inizi a muoversi un movimento globale, che oggi presidia e ridefinisce la sfera pubblica, capace di porre la più radicale istanza etica (“buona vita”) sul terreno del conflitto sociale, abbandonando, così pare, l’opzione dell’uso della forza; patrimonio invece egemone nella classe durante tutto il ciclo di lotte che nel nostro Paese si espressero indicativamente dal ‘68 all’80.

Allo stesso modo, evidentemente, sono cambiate le modalità di lotta dei reclusi. La rabbia e le istanze radicali per il miglioramento delle condizioni di vita permangono immutate, ma la novità rispetto al passato sta nel fatto che i detenuti stanno imparando a organizzarsi, e organizzandosi, scelgono scientemente di farlo in forma pacifica. Stanno capendo che bisogna evitare di dare l’opportunità a tutti coloro i quali non vedono l’ora che succeda qualche atto di violenza collettiva dentro al carcere, di fare tabula rasa di tutto quello che i detenuti hanno conquistato in questi anni. Con queste modalità, che potremmo definire sindacali, dal settembre 2002 è iniziato un lungo ciclo di lotte, ondivago ma continuo.

 

Storicamente, nelle carceri italiane, non si è mai verificato l’emergere di una tale spinta dal basso così matura e organizzata. Essa, disinteressandosi dei rapporti di forza, pare fondare il suo orizzonte strategico su una drastica ridefinizione della dialettica tra istituzioni totali e popolazione detenuta, laddove, di quelle istituzioni nega a gran voce la legittimità. E lo fa portando il conflitto, in forma pacifica, sul terreno stesso dell’avversario: la giustizia.

Facendo proprio il concetto etico di “buona vita”, il movimento dei detenuti, che pare unirsi così alla già dispiegata opposizione sociale, scoperchia e disvela, al cospetto dell’intera società civile, la menzogna sulla quale si regge l’intera architettura del potere nel carcere. Con la Costituzione Repubblicana sotto il braccio i detenuti pretendono giustizia e rispetto delle leggi, mettendo così in grave contraddizione uno Stato, titolare del monopolio della violenza, che, a garanzia dell’esistenza del sistema-carcere, quelle sue stesse leggi non può rispettare.

In una parola il sistema-carcere è fondato su un paradosso giuridico: l’illegalità legale. In particolare, se quanto detto non bastasse, è sotto gli occhi di tutti come questo governo stia operando una sovversione dall’alto, emanando in continuazione leggi che sottraggono ai cittadini diritti acquisiti in campo sociale e giuridico e altre, ad personam, che garantiscono l’impunità al Presidente del Consiglio imputato, insieme ad alcuni suoi amici affaristi e faccendieri, in numerosi procedimenti penali per gravi reati comuni (davvero un bell’esempio per chi si pretende abbandoni la devianza).

Ecco perché oggi sostenere le lotte pacifiche dei detenuti significa abbracciare una battaglia di libertà e di civiltà che riguarda tutti e tutte. Ecco perché occorre che chi fa parte del mondo sindacale, delle realtà dell’autorganizzazione, della Chiesa di base, del mondo della cooperazione sociale, del volontariato e di ogni singolarità o collettività sensibile ai valori più profondi della vita, lavori insieme per una società dove la giustizia non significhi vendetta e afflizione sui più deboli e impunità dei più forti. Per una società dove l’affermazione del diritto universale di cittadinanza per chiunque si trovi sul suo territorio stia alla base di qualsiasi legge emanata. Per una società che attraverso un sistema di regole della convivenza orizzontalmente condivise, sappia liberarsi della necessità del carcere.

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