Intervista a Gianni Scalia della rivista Officina

Rapporto tra letteratura e impegno civile

 

Come declinavate allora il nesso letteratura-etica-impegno civile?
Allora il rapporto tra la letteratura, e più in particolare la poesia e l’impegno politico, era al centro dei nostri interessi. Ma non seguivamo l’approccio del cosiddetto engagement, che si intitola prevalentemente a Sartre.

Perché?
La nostra idea di impegno derivava dal clima post-resistenziale, era un impegno politico in senso ampio, non partitico o ideologico. Tra noi e l’engagenlent sartriano faceva la differenza quello che chiamavamo sperimentalismo. Una esprienza personale e collettiva di partecipazione alla storia, al nostro tempo, non nel senso esistenziale-umanistico di Sartre, perché il nostro atteggiamento problematico si ricollegava alla sperimentazione letteraria, alla ricerca di un nuovo linguaggio. I nostri due poli polemici erano l’ermetismo da una parte e il neorealismo dall’altra.

Come le appaiono ora quei tentativi “giovanili”?
Li vedo, come tutto ciò che è avvenuto finora, come generosi e inutili. Ma forse la generosità è sempre inutile, dal punto di vista dei suoi esiti storici, che finiscono sempre in cronaca, dato che non crediamo più né in una logia né in un senso della storia. Invece allora eravamo tutti rigorosamente progressisti.

Come affrontate quel genere di problemi nella rivista “In forma di parole”, che dirige oggi?
Gli anni ‘50 di Officina sono quasi preistorici, adesso siamo in tempi post-storici, o ex –storici. Informa di parole rappresenta una frattura nel mio itinerario, che si produce dopo gli anni ‘70. Nel marzo 1980, dopo discussioni con amici tutti studiosi di letterature straniere (cosa che io non sono) decidemmo di fondare una rivista di traduzioni di testi non noti dalle letterature di tutto il mondo. Qui non c’è una relazione esplicita tra letteratura e impegno. Se c’è una filosofia o un problema di fondo è piuttosto quello della traduzione, che è poi una questione etica o politica essenziale.

In che senso?
La traduzione ha al centro la comprensione e l’interpretazione dell’Atro, il che è a suo modo il contrario del “politico”, che tende ad unificare, creare consenso, agire. L’azione politica è un’azione di volontà di potenza, anche se non necessariamente in senso negativo. Mentre l’etica riguarda soprattutto l’intenzione e i valori di riferimento.

Il suo amico “difficile”, Franco Fortini, distingueva, polemizzando con Pasolini, tra moralità e moralismo. La moralità sarebbe necessaria “tensione a una coerenza tra valori e comportamento; e coscienza del (loro) disaccordo”. Il moralismo, “l’errore di chi nega (che) debbano o possano esistere valori e comportamenti altri da quelli che la moralità ha presenti in un momento dato”. È una distinzione valida?
E’ una tipica costruzione dialettica, di derivazione hegeliana. Ma hegeliani non si può essere, col primato dell’etica come rapporto colla società civile sulla moralità individuale. Nello scontro tra Fortini e Pasolini erano in gioco due assoIutezze. Direi -in una sintesi crudele – che non si trattava di due posizioni, ma di due caratteri: in Fortini, il rigorismo dipendeva da radicalità dei presupposti, mentre in Pasolini c’era una radicalità di sperimentazione, di esperienze, che lo rendeva più flessibile, tollerante.

Possiamo immaginare un’etica in grado di andare al di là delle parole della morale denunciate dal nichilismo, pensare un’etica al di là di Nietzsche e di Heidegger?

Ma Heidegger non sostiene il nichilismo. È colui che più profondamente ricorda che non siamo abbastanza consapevoli del nichilismo. La conferma sta nel suo dibattito tormentosi con Nietzsche, che è l’ultimo nichilista della fase finale della metafisica occidentale. Heidegger ritiene che il nichilismo sia una fase da attraversare, la fase che culmina nell’epoca della tecnica. Allora come uscire dalla tecnica? Non se ne esce senza uscire dalla metafisica, senza decostruirla.

So che Scalia è un sottile ed appassionato lettore di Heidegger. Ma non resisto a dirgli tutto il mio fastidio per quello stile di pensiero, per quella “Titanomachia” di astrazioni generalissime. È anche uno sfogo generazionale: chi come me è cresciuto negli anni ‘80 è saturo di quel linguaggio esoterico e cerca approcci meno roboanti e generici, riflessioni più umili, che facciano i conti con la realtà quotidiana, e accettino di essere sottoposte a verifica. Annuisce: è tollerante con chi la pensa diversamente.

Aggiunge:

Vede, la mia “morale portatile” è fatta di ironia, tolleranza e pietas. Insieme ad Heidegger io impiego volentieri Wittgenstein: se il significato delle parole è l’uso che se ne fa, il nostro compito etico è procedere ad una continua chiarificazione del linguaggio. Nel nostro tempo il linguaggio è andato in vacanza, e noi dobbiamo restituirgli significato, dire al nostro interlocutore: “guarda, quello che tu dici nasconde un’altra cosa”. Mentre la politica è diventata il nascondere il senso di ciò che si dice per affermare il potere, che si fonda sul non detto. E questa chiarificazione la fa l’arte, la poesia, il dire civile. Perché non intitolate così l’incontro di lunedì: l’etica dell’arte e il dire civile?

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