Intervista a Sandra Harding

Scienza diversa in diversi contesti

 

Ci può spiegare il suo concetto di scienza democratica o di democrazia nella scienza? Qual è in questo momento il livello di accesso alla formazione scientifica per persone che non appartengono alle elite del Mondo Occidentale?

Una scienza democratica apparirebbe diversa in diversi contesti; la democrazia funziona in modo differente qualora parliamo di piccoli gruppi, o di democrazia globale: la democrazia ha diverse forme e diverse regole. Forse allora sarebbe meglio parlare di un’etica democratica. Quelli che subiscono le conseguenze della scienza dovrebbero avere una possibilità proporzionale nel partecipare alla scienza. Quelli che andranno a soffrire o beneficiare di ogni decisione in ogni luogo dovrebbero avere una possibilità democratica nel prendere tale decisione. Allora come potrebbe funzionare questo per la scienza? Questo dovrebbe funzionare in modo diverso a seconda dei diversi contesti.

Il modo in cui io intendo la scienza non è ristretto alla scienza moderna occidentale. Per scienza intendo uno studio sistematico del mondo empirico e così vediamo che la scienza è diversa in molte diverse culture. Prima di tutto ci sono sempre state persone che hanno cercato di sopravvivere alle malattie, di costruire le piramidi, di navigare per più di un migliaio di miglia, dal Sud Pacifico alla Nuova Zelanda e ritorno. Regolarmente, la gente ha realizzato imprese incredibili: gente priva di sonar e di radio o di qualsiasi altro strumento in dotazione alla scienza moderna ha imparato ad attraversare il deserto del Sahara.

Dunque, tutti hanno accesso alla scienza, ma diverse culture sviluppano diversi tipi di conoscenze sistematiche del mondo attorno a loro e se non lo fanno muoiono. La gente deve capire come sopravvivere e lottare, come ottenere cibo, come proteggersi dalle malattie, dagli uragani, dai terremoti e così via. Così ogni cultura sviluppa il proprio corpo di saperi sistematici. Il problema adesso è che solo un tipo di scienza è stato riconosciuto come valido internazionalmente. La scienza moderna è valida, ma si è sviluppata attraverso l’espansione europea – laddove per espansione europea intendo sia quella europea che quella americana… chiamiamola espansione del Nord del Mondo, allora – che ha completamente prelevato le altre conoscenze senza riconoscerle.

Oggi l’Occidente controlla l’Oceano. I darwiniani hanno potuto navigare tra una società e l’altra e mettere assieme le diverse conoscenze in un’unica teoria. Così, per tornare al nostro punto di partenza, è necessario che coloro che subiscono le conseguenze della scienza debbano avere una possibilità almeno proporzionata nel prendere le decisioni e nel fare scienza. Le donne devono avere una possibilità proporzionale di prendere decisioni riguardo alle politiche sulla salute, al corpo delle donne, al corpo dei bambini, inteso come corpo di cui le donne si prendono cura. Questo è il modo in cui io penso una scienza democratica.

Ci potrebbe raccontare un esempio, un evento della sua vita dove ha visto realizzarsi ciò che lei chiama “la complicità della scienza moderna con un progetto razzista, androcentrico e eurocentrico”?

Nei tardi anni ’80 e primi ’90 ho avuto la favolosa opportunità di fare consulenza per una serie di organizzazioni dell’ONU. Ho passato tre settimane nell’America Centrale, sponsorizzata dalla Organizzazione della Salute del Panamerica, e poi sono stata consulente per la preparazione della quarta U.N. Women Conference a Bejing. Sono così venuta a conoscenza del fatto che il tipo di domande che interessano i filosofi delle scienze e gli scienziati nel Nord non erano sempre le stesse domande che interessavano la gente del Sud, e che le domande rivolte dalle donne del Sud non erano centrate sui lavori che si svolgono al Nord.

Questo mi ha fatto pensare e mi ha insegnato molto. Per esempio, nel Nord noi raccontiamo la ingenua storia della Scienza Moderna come se tale scienza avesse portato benefici ai gruppi per i quali questi benefici erano stati pensati. Nel Sud io invece ho sentito un’altra storia. Là si raccontava che la scienza moderna è una forma di Imperialismo che distrugge le relazioni sociali democratiche e l’ambiente.

Io prendo il 1992 come un momento veramente importante nella storia delle scienze. Tra le tante, accaddero due cose che mi colpirono molto. Una fu la Conferenza sull’ambiente organizzata dall’ONU e l’altra fu la celebrazione – almeno doveva essere una celebrazione – del Cinquecentenario della scoperta dell’America. Parlando di quest’ultima, in quel periodo uscirono una miriade di libri che parlavano di ciò che accadde quando gli europei scoprirono l’America, di che cosa fosse il Columbus exchange, e raccontavano una storia molto veritiera sui benefici economici che l’Europa guadagnò dallo sfruttamento degli indigeni.

Ma anche la Spagna investì un sacco di soldi per celebrare il Cinquecentenario in tutta l’America Latina e fare dire a tutti “Che fantastici conquistatori sono stati gli spagnoli!”. Così costruirono i modelli della Nina, La Pinta e la Santa Maria e vollero che queste passassero per tutti i porti maggiori degli Stati Uniti. A Boston, New York e Baltimora hanno festeggiato il Cinquecentenario, ma sulla West Coast – a San Diego, Los Angeles, San Francisco, Seattle, città che hanno una grandissima popolazione latina – non c’è stato verso che la gente celebrasse le conquiste degli spagnoli. E’ solo un esempio simbolico per dire quanto i discorsi possano assumere significati diversi quando chiamano alla memoria un contesto critico

Un altro particolare relativo ai festeggiamenti per il Cinquecentenario che vorrei raccontare è che per l’occasione negli Stati Uniti vennero inaugurati nuovi musei e nuove mostre, in particolare ne ricordo una grandiosa allo US National Federal Museum di Washingthon DC, intitolata 1492. Era composta di circa dieci stanze e ogni stanza conteneva opere d’arte e manufatti provenienti da varie parti del mondo: Cina, Europa, Asia. E c’erano in mostra alcuni bellissimi strumenti scientifici, specialmente astronomici, così antichi da dare la sensazione che nel 1493 quegli strumenti non potessero essere abbastanza buoni da portare i navigatori europei negli Stati Uniti e da permettergli di rimanere lì.

Ad esempio non esistevano le mappe per navigare e soprattutto per tornare indietro, poiché per arrivare sfruttavano le correnti oceaniche da Genova ai Caraibi, ma non avrebbero potuto fare altrettanto per rientrare alla base. Avrebbero dovuto farsi trasportare fino al Sudamerica, e la distanza dall’Argentina al Sudafrica è circa due volte quella dallo Stretto di Gibilterra ai Carabi. Da qui si capisce il loro bisogno di qualche cosa di più che un aumento di mezzi più adeguati e conoscenze nel sapere.

Questo è il cuore della nuova storia della scienza post coloniale. Ci dobbiamo chiedere se e quale sia stata la relazione tra lo sviluppo della scienze moderna in Europa e il viaggio della scoperta. Nel 1492 accaddero due cose: la scienza fece un balzo in avanti e lo sviluppo di una scienza migliore ha avuto bisogno di essere affiancarlo da un’espansione europea che vi provvedesse. Ho iniziato a raccogliere tutti questi nuovi spunti di conoscenza provenienti da altre culture. E ad occuparmi delle relazioni fra gli europei e altri gruppi dai quali gli europei attinsero le scienze, come fecero in parte gli inglesi con gli indiani.

Quali sono le conseguenze pratiche del suo pensiero?

Fortunatamente penso siano molte, e mi fa piacere perché sono una filosofa e i filosofi non sono ritenuti influenti, ma piuttosto decorativi. Invece la filosofia è veramente potente e a questo proposito sono stata molto contenta di avere partecipato a progetti concreti come quelli condotti dalle agenzie dell’ONU, a proposito del come aumentare la partecipazione delle donne nelle scienze, come occuparsi politiche ambientaliste, come valutare gli effetti dell’ambiente sulle donne, e così via.

Credo che abbiano proposto a me di partecipare a questi progetti perché le filosofie femministe e l’epistemologia forniscono un framework concettuale per organizzare le scienze. Per centinaia di anni le donne si sono lamentate per come loro e i loro bambini venivano trattati dai medici. Già nel 1942 l’ONU aveva redatto un progetto sul tema “donne e scienza”, ma in questo progetto non si parlava dell’androcentrismo come di un modo sistematico per mantenere l’ordine sociale. Si parlava più che altro di pregiudizi dei singoli individui.

Gli ultimi 30 anni di femminismo hanno contribuito a considerare le scienze naturali in modo diverso, ad acquisire uno schema critico capace di mostrare che uomini e donne, anche ben intenzionati, hanno praticato una scienza androcentrica e sessista. Il movimento femminista ha fornito il quadro teorico riguardo al mondo delle donne e degli uomini nelle scienze che ha consentito poi di sviluppare politiche efficaci. Personalmente, ho dovuto imparare a scrivere in un modo molto diverso, più schematico. Un modo veloce di vedere le cose, per chi non aveva tempo di leggere una dissertazione intera perché troppo impegnato a cercare di cambiare il mondo.

Oggi si parla della diversità all’interno della scienza in termini di ricchezza, ad esempio in biologia, per opporsi alla diffusione degli OGM. Ci sono le guerre in Afghanistan e in Medio Oriente, in Europa c’è un avanzamento delle Destre, si riduce la diversità della vita attraverso la scienza. Invece bisogna pensare alla forza e ai limiti della diversità come parte di un discorso più ampio. Perché parliamo di diversità ora, perché è diventato un discorso politicamente corretto? E perché non parlare invece di unità, o parlare di unità non è così politicamente corretto?

All’inizio del secolo scorso, parlare di Unità era invece politicamente corretto. Quello dell’unità delle scienze fu un movimento veramente potente: si svilupparono discorsi contro il differenziarsi di culture, di religioni e politiche. Forse dovremmo andare in un’altra direzione e chiederci quali sono i contesti storici per cui viene enfatizzata di più la diversità e meno l’unità o viceversa. All’inizio del secolo ci fu una sinistra unificata politicamente contro il nazionalismo che portava alla frammentazione della classe dei lavoratori e che permetteva il controllo delle classi più ricche nei confronti di quelle più povere. Adesso viviamo in una società di network, in una net-society, dove siamo tutti collegati, uniti in un’interazione organizzata, siamo inseriti in un sistema di collegamento veramente potente e questo è solo l’inizio di una politica globale.

Attraverso la sua teoria il corpo emerge là dove non era ancora visibile, ossia nella scienza, e attraverso la concretizzazione e il posizionamento del corpo lei sostiene che sia possibile costruire una stronger objectivity (un’oggettività più forte) e una crescita delle conoscenze, dei saperi. Ma oggi il corpo è anche oggetto di biotecnologie, di doping, si possono acquistare e vendere organi, si possono trasportare gli organi da un corpo a un altro, si possono clonare gli animali… di quale corpo stiamo parlando? Possiamo pensare ad una diversa percezione del corpo, possiamo parlare di forza del corpo e della vita (bios) o dei suoi limiti?

Nel mio lavoro più che parlare del corpo in sé, ho cercato di evidenziarlo come political location, poiché la standpoint theory è una teoria del posizionamento politico. Il punto in cui il corpo diventa visibile è quello in cui mostra la sua posizione all’interno della struttura sociale: ad esempio il corpo non sano evidenzia il costo eccessivo del servizio sanitario locale, l’esistenza in una certa struttura della malnutrizione e così via.

*Tratto dalla rivista online CaffèEuropa

 

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