Conversazione con Valerio Pocar

Chi detta le regole allo scienziato? Appunti per una bioetica pluralista

Partirei da una prima asserzione: la scienza non è un fatto puramente conoscitivo, è anche un fatto sociale. Non possiamo considerarla come un puro accumulo di conoscenze, poiché è una componente essenziale dello sviluppo della società umana che si trasmette culturalmente di generazione in generazione e si stratifica nella cultura di una società e ne condiziona la cultura, restandone a sua volta necessariamente condizionata; la ricerca scientifica non è casuale, è socialmente determinata, tanto che potremmo ricordare che il cosiddetto «fondatore della sociologia», Auguste Comte, costruisce una modellistica dello sviluppo della società umana sul modello scientifico tipico di ciascuna epoca.
Siamo di fronte a uno stadio particolarmente sviluppato di questa evoluzione: ricordo ad esempio un autore come Heinrich Popitz, che nel suo libro Verso una società artificiale [tr. it. Roma, Editori Riuniti, 1996] distingue la storia umana secondo il tipo di scienza e tecnologia che ne caratterizza lo sviluppo, a partire dalla tecnologia arcaica dell’invenzione degli utensili, in epoca preistorica, nel neolitico, via via fino alla rivoluzione informatica e telematica. A quel punto Popitz si ferma, e noi possiamo aggiungere che probabilmente oggi siamo allo stadio della genetica, delle biotecnologie, in una fase ulteriore, cioè, nella quale la scienza da strumento di conoscenza e di dominio della natura diventa scienza di conoscenza e di costruzione ‑ o di ricostruzione ‑ della stessa biologia della specie umana. È un cambiamento di carattere epocale. Se è vero che la società condiziona e indirizza il progresso scientifico e a sua volta il progresso scientifico condiziona la società, credo che la società abbia il dovere di proteggere, e abbia l’interesse a proteggere l’attività di ricerca scientifica e al tempo stesso titolo per controllarla, proprio per questo vicendevole effetto, perché la società risente di ciò che la scienza fa e di cosa riesce a conoscere. Veniamo alla questione di chi “detta le regole” allo scienziato. Dirò che quello che mi accingo a dire è specificatamente destinato al campo delle scienze biologiche, biomediche e biotecnologiche, ma potrebbe valere per ogni ramo della scienza […]. Ecco, se ci occupiamo del campo bioetico a me sembra semplicistica la tradizionale distinzione che viene fatta: la scienza è libera, le tecnologie applicative della scienza devono essere controllate, la scienza può non avere regole ma la sua applicazione deve essere controllata.
Mi sembra semplicistico in generale per ogni campo della ricerca scientifica, perché la scienza ha sempre avuto ricadute sociali importanti e di per sé condiziona le relazioni sociali; ma vale in particolare proprio per il settore bioetico, e vale almeno per due ragioni. [La prima è che] […] essendo inscindibile l’intreccio tra la ricerca e l’applicazione nel campo biomedico della genetica, l’accrescimento della conoscenza avviene attraverso le tecnologie che sono il modo per arrivare a conoscenze scientifiche. In definitiva dovrei dire che queste conoscenze sono necessariamente applicative, cioè producono una conoscenza esistente, non una conoscenza pura, puramente teorica. Faccio solo il classico esempio della pecorella Dolly, un’acquisizione scientifica ma al tempo stesso l’applicazione di questa acquisizione. La pecorella Dolly esiste, o meglio è esistita visto che ci ha lasciati anzitempo. Non si sarebbe potuta avere questa conoscenza senza produrre una realtà. Questa è la prima ragione. La seconda ragione: forse ai tempi di Talete, alle origini del pensiero scientifico, la ricerca era fine a se stessa, anche perché le conoscenze erano assai più limitate di oggi, tutto era ricerca. Oggi la ricerca scientifica è indirizzata a fini applicativi, cioè condizionata dai suoi fini: vale a dire che le scelte dei settori di ricerca non sono casuali, non sono legate alla curiosità dei ricercatori, ma sono generalmente volte alla realizzazione di qualche cosa. Basti pensare che l’85% della ricerca biomedica in Italia è finanziato dall’industria, la quale non finanzia a vuoto, ma a seconda di determinati obiettivi. La ricerca quindi si svolge a scopo di profitto. Potremmo anche dire che nella ricerca scientifica, o almeno in buona parte di essa, l’interesse economico ha sostituito la curiosità. Si giunge a dire che il marketing viene prima della ricerca, vale a dire che le teorie scientifiche rischiano di non essere più una costruzione sociale come potevamo inizialmente pensare che fossero, ma una costruzione del mercato. La scienza in realtà fa parte del mercato.
Qui sorge subito un’osservazione collaterale di rilievo, cioè il timore presente negli scienziati ‑  ma credo che dovrebbe essere il timore presente nella cittadinanza ‑ dei danni che possono derivare dalla riduzione del finanziamento pubblico alla ricerca, cui stiamo assistendo in questo periodo. Perché è chiaro che la ricerca finanziata dalla mano pubblica è l’unica che può essere veramente libera, anche se non è detto che lo sia. L’unica ad essere ricerca pura, di base, le cui finalità non sono necessariamente dettate dagli scopi applicativi.
Ci sono all’interno della ricerca, e nella mente degli scienziati, regole intrinseche alla ricerca stessa. Ad esempio la regola della scientificità: una ricerca deve essere condotta in modo scientificamente corretto, in modo che dia risultati plausibili da un punto di vista metodologico. Oppure quella della significanza, vale a dire del fare ricerca su cose che significhino, siano importanti. O ancora la regola del buon impiego delle risorse: la selezione dei campi di ricerca deve tener conto del buon uso di queste risorse limitate. O quella della considerazione delle ricadute applicative, quella del disinteresse ‑ la ricerca è interessata solo a conoscere ‑, quella della comunicabilità – le acquisizioni scientifiche devono essere note, alla portata di tutti, in particolare degli scienziati che potranno utilizzarle per progredire nella ricerca. Qui c’è anche il problema della eticità della ricerca, vale a dire che la ricerca deve essere svolta, tanto dal punto di vista degli strumenti quanto da quello dei metodi, tenendo presente certi principi etici, come quello del rispetto dei diritti dei soggetti. È il caso della ricerca farmacologica, che è chiaro che non può essere fatta con metodo nazista, ma tenendo conto dei soggetti implicati in questa ricerca. Fra tutti questi elementi, alcuni possono benissimo non essere rispettati nella ricerca non pura, non accademica; i risultati di questo tipo di ricerche sono coperti dal segreto, possono essere comunicati come possono anche non esserlo – e in genere il committente non desidera che lo siano, perché le sue ipotesi di profitto verrebbero ridimensionate. Non è ricerca disinteressata, ma porta all’utile, e, cosa più grave, non è veritiera e non porta all’aumento delle conoscenze. Potrebbe essere, e spesso è, falsa. Da qui noi vediamo tutta la gravità del fatto che la ricerca sia finanziata dal privato. Perché a questo punto le regole intrinseche non vengono rispettate e succede che a dettare le regole sia il mercato. Ora, dimenticando cosa effettivamente avviene, potremmo chiederci se queste regole intrinseche alla ricerca corretta, pura, siano di per sé sufficienti a controllarla. Cioè se questa forma di autocontrollo interno sia sufficiente o meno. In genere non è così, ma [quelle regole] potrebbero essere sufficienti se la ricerca fosse effettivamente pura: il problema sta nel fatto che è difficile stabilire una ricerca davvero pura. Molti ricercatori sono contrari a regole di controllo dall’esterno, e lo sono nel timore che un controllo regolativo dall’esterno freni le possibilità della ricerca. Questo timore può avere qualche fondamento anche se non bisogna trascurare che questa pretesa della piena libertà della ricerca significa per il ricercatore l’idea di non perdere il potere tecnico che acquisisce attraverso la ricerca stessa, e quindi di tendere ad essere libero nel suo dominio ‑ dominio che peraltro comporta per il ricercatore vantaggi sociali ed economici. Io credo che questa idea che i ricercatori avanzano – che siano sufficienti regole deontologiche, direttive di principio, guidelines adottate da organismi nazionali e internazionali, o dagli organi professionali, dalle associazioni scientifiche, dai comitati etici, che ormai troviamo dappertutto, sia a livello locale che nazionale – sia comunque criticabile. Criticabile per più di una ragione, e comunque troppo diffusa presso i ricercatori i quali, in genere, non hanno una formazione che li conduca a prestare attenzione alla eticità della ricerca.
Pensiamo al campo biomedico. La bioetica non si insegna nelle facoltà di medicina, o si comincia adesso a insegnarla, ma è vista più come ornamento della cultura del medico che come qualcosa che intrinsecamente costruisca il suo modo di procedere, che controlli dal suo interno la sua attività. Manca una sensibilità. Quindi una deontologia senza una sensibilità è evidentemente   un’espressione di carattere ossimorico. La deontologia è sensibilità e viceversa. Gli stessi soggetti che svolgono ricerca pura svolgono anche ricerca applicata e finanziata dalla mano privata, quindi dovrebbero adottare un doppio criterio etico, senza in realtà trovarsi in grado di farlo. Un’etica all’interno della ricerca pura e una all’interno di quella privata, con una specie di dissociazione schizoide che mi sembra improbabile. C’è un altro aspetto dovuto proprio alla mancanza di una formazione specifica agli aspetti dell’eticità della ricerca. Anche dove il ricercatore sia sensibile a certi aspetti, tenderà ad aderire a giudizi etici di tipo tradizionale, e non di tipo razionale, di fronte alla novità. Ora, è chiaro che l’etica tradizionale e i valori tradizionali sono stati posti in grave crisi dall’innovazione e raramente riescono a rispondere in modo coerente e razionale, su base argomentativa, alla novità. […]. Lo sfavore nei confronti di regole esterne per il campo biomedico è condiviso da altri soggetti e per altre ragioni, diverse. Da un lato, ad esempio da parte di esponenti di orientamenti etico-religiosi, vi è il timore che i controlli possano finire con il legittimare pratiche eticamente riprovevoli, proprio in nome della scienza. Questo timore è alla base della cosiddetta bioetica «difensiva», quella che vede la funzione della bioetica nel porre limiti e divieti alla libertà della ricerca scientifica. Dall’altra parte molti giuristi si oppongono a regole specifiche di carattere esterno rispetto alla ricerca scientifica nel convincimento che nel diritto esistente, nel diritto costituzionale, siano già enunciati i principi cui ispirarsi. Questo è vero fino a un certo punto, perché è vero che a livello di grandi principi probabilmente queste regole esistono ‑ e credo che le regole che si devono dettare non possano andare contro i principi costituzionali ‑ ma è anche vero che specificare i principi costituzionali non è cosa semplice. Forse quello che il fine costituzionalista potrebbe fare agevolmente se capisse di bioetica e di scienza non è in grado di fare lo scienziato, che appunto non fa il costituzionalista. Per quello che può sembrare un paradosso, anche se un paradosso non è, queste stesse ragioni sono recate anche da coloro che viceversa sostengono che sia necessario dettare regole precise in questo campo, regole che dal punto di vista giuridico pongano divieti stringenti, perché si ha il timore che, siccome tutto ciò che non è vietato è lecito, alla fine si possa finire con il legittimare tutto, e perciò sarebbe opportuno un intervento forte a livello legislativo tale da fissare i limiti tra il lecito e l’illecito. È una concezione di carattere pedagogico delle regole, e corre il rischio che le regole abbiano natura univoca, che possano legittimare una, e una soltanto, delle diverse opzioni etiche.
Per non fare nomi e cognomi, l’etica cattolica è per un verso contro le regole, che potrebbero legittimare molti comportamenti, e per un altro verso è per le regole perché spera di poter imporre con le leggi la sua visione del mondo. Due cose che io personalmente non mi sento di accettare, e direi che questa posizione ‑ regole stringenti per imporre una visione ‑ non ha senso non soltanto sotto il profilo etico e intellettuale, ma nemmeno sotto quello filosofico-politico da un lato e sociologico-giuridico dall’altro. Sotto il profilo filosofico-politico perché non possiamo dimenticare che da qualche secolo vi è una netta distinzione tra diritto e morale, distinzione non di principio, bensì fondata sulle diverse finalità che i due ordini normativi, quello giuridico e quello morale, possono perseguire. La morale mira infatti a indirizzare le scelte degli individui nel perseguimento di comportamenti buoni e giusti; il diritto mira invece a ordinare la comunità nella quale viene determinato al fine di risolvere, trattare o gestire in modo sufficientemente ordinato i conflitti sociali. Quindi due finalità completamente diverse che ormai da secoli si ritengono separate. Non a caso i sostenitori di questa tesi non distinguono tra diritto e morale.
Sotto il secondo profilo, quello sociologico-giuridico, direi che noi ci troviamo in una società che presenta non tanto un pluralismo etico, ma sicuramente una pluralità di opzioni etiche possibili. E questo è un dato normale nella società contemporanea complessa, è talmente vero che persino i sostenitori di quella tesi che vado confutando lo ammettono, seppure a malincuore; anche il cardinal Ruini riconosce serenamente che i cattolici in questo paese sono una minoranza ‑ i cattolici veri, e probabilmente sono sempre stati una minoranza i cattolici veri in questo paese, ma comunque la cosa è ufficializzata. Dobbiamo prenderne atto, e non è banale: significa che questa pluralità è un dato di fatto, e allora lo Stato che si trovasse a dover operare un’unica scelta etica, un’unica opzione etica tra le molte presenti, potrebbe solo farlo innanzitutto in forma prevaricante, imponendo questa scelta a tutti i cittadini che non la condividono. Questo comporterebbe anche il determinarsi di un consenso sociale, e a questo punto il diritto verrebbe proprio a essere il contrario di quello che dovrebbe essere, o che si vorrebbe che fosse, cioè uno strumento di ordine: il diritto diventerebbe strumento di conflitto, il che è una contraddizione in termini, perché questa idea ‑ a parte il fatto che non mi piace perché credo di amare di più scelte di tipo laico, di tipo pluralistico, di tipo se volete libertario ‑ mi sembra insostenibile dal punto di vista concreto, concettuale. Non si può fare, per quanto lo si pretenda non si può fare. Ci riusciranno, lo faranno, ma questo sarà un errore, crederanno di aver fatto qualcosa di buono e invece avranno fatto qualcosa di autolesionistico – forse non dovremo preoccuparci di questo se si tratta di autolesionismo. Ora, per la stessa ragione, per quanto attiene ai cittadini le regole nel campo bioetico non potrebbero essere che di tipo mite, vale a dire di tipo procedurale, non sostanziale, tali da consentire a ciascun cittadino di tenere comportamenti conformi alla sua opzione etica con il solo limite ovvio di non recare danno ad altri. Regole che consentono a ciascun cittadino di non ricorrere alle regole stesse e quindi di utilizzare o non utilizzare gli strumenti delle regole formali. Questo è nel nostro campo che, proprio per la pluralità delle opzioni etiche, non può che essere ispirato ai principi della tolleranza, della libertà e dell’autodeterminazione dei cittadini, e non potrà che trovare applicazioni di tipo graduato proprio in chi non segue il principio del non recare danno ad altro. Diciamo che dovrebbe funzionare sulla base del  bilanciamento degli interessi.
Qui si vede che le regole costituzionali diventano importanti, perché sono l’unico metro, l’unica opzione etica che lo Stato possiede e che ha il dovere di realizzare; e allora i principi costituzionali valgono per stabilire un corretto bilanciamento degli interessi e ci dicono quali interessi sono più interessanti per la collettività e quali meno. Questo per i cittadini, mentre per lo scienziato credo che appunto i limiti alla ricerca non possano essere dettati dall’esterno, soprattutto non secondo un criterio di bioetica, nel senso che i divieti in questo campo si devono usare nella misura minore possibile ‑ vorrei dire che in tutti i campi della convivenza umana i divieti devono essere i minori possibili, e soprattutto devono essere solidamente giustificati, ma in questo caso la cosa mi sembra anche più evidente. E ovviamente perché questo si tradurrebbe in qualche modo in un sistema di regole ispirate dogmaticamente da principi religiosi o morali a senso unico. Ma terrei conto a questo proposito che la bioetica è un discorso pubblico che in fondo tende a rassicurare la collettività, a garantire i diritti della collettività, ma senza diffidenza nei confronti della ricerca.
La ricerca è una risorsa, non dobbiamo averne timore, anzi. Per cui non posso immaginare regole che precisamente, e in modo predeterminato, possano condizionare o indirizzare la ricerca. A mio parere il controllo, per essere un controllo effettivamente democratico, deve essere un controllo di tipo informale. E il controllo è quello del dibattito pubblico: occorre in altre parole che delle ricerche si parli e si parli in modo adeguato da parte della cittadinanza. E questa è a mio giudizio la miglior forma di controllo, che, naturalmente, ha una grossa difficoltà che è sotto gli occhi di tutti. È la difficoltà che pone il nesso inscindibile, ma intendiamoci difficile e delicato, tra il controllo dell’attività scientifica e la correttezza dell’informazione.
Quando dico «un’informazione corretta» intendo quanto meno un’informazione adeguata nella sua fase conoscitiva ‑ bisogna cioè conoscere i fatti della scienza, che cosa effettivamente la scienza sta facendo, sta raggiungendo in quella particolare ricerca, il che significa un’informazione che non abbia censure e non sia selettiva – il che naturalmente è un bel problema. D’altra parte una democrazia non informata non è una democrazia, questo vale nella politica e, lo sappiamo troppo bene in questo Paese, nel rapporto tra cittadino e istituzioni, e vale anche nel rapporto tra la collettività e la comunità scientifica. Io non credo che l’informazione debba avere un carattere pedagogico, condivido un’idea che ascoltavo molto recentemente da Carlo Flamigni quando diceva che l’informazione nel momento in cui è autenticamente informativa è di per se pedagogica perché, se mi passate l’espressione un po’ enfatica, la verità, o quella che in quel momento è la verità acquisita, scientificamente plausibile, è di per sé pedagogica: conoscere è saper anche valutare. È per questo che io penso che l’informazione, come esiste in questo Paese – ma non è meglio in altri Paesi -, sia scorretta, perché si concentra, più che sull’informazione dei fatti, sull’informazione sui giudizi sui fatti; in altre parole il dibattito è un dibattito di carattere bioetico, non è di carattere scientifico per condurre a una valutazione etica della ricerca. E c’è una profonda differenza. Perché? Perché a questo punto, a paradosso, l’enfatizzazione degli aspetti valutativi, così come viene praticata dall’informazione di massa, porta a una sopravvalutazione dell’aspetto bioetico rispetto all’aspetto scientifico: vale a dire che la conoscenza da parte della collettività è una conoscenza sui principi e non una conoscenza sui fatti, per cui alla fine il dibattito è sui principi e non sui fatti, e quindi è un dibattito distorto, astratto. I principi alla fine, com’è noto, sono sempre gli stessi, e non c’è discussione tra i principi. Questo vuol dire semplicemente fissare una contrapposizione, una spaccatura, che non viene superata proprio per una mancanza di una base conoscitiva.
Se la cittadinanza italiana avesse chiara la differenza tra clonazione produttiva e clonazione terapeutica gran parte del dibattito sulla clonazione sarebbe esaurito. Ma poi vedete, viceversa, ogni volta che si parla in qualche modo di manipolazione genetica, o di genetica in generale, nel titolo del giornale c’è la parola clonazione, che c’entri o meno, perché sulla parola clonazione intesa in senso astratto si può fare una contrapposizione di principio, ma se poi si va a vedere la funzione terapeutica essa non presenta affatto i problemi etici che presenta la clonazione riproduttiva, e forse il discorso potrebbe essere più pulito, più convincente, più utile. E, forse, in questo modo si potrebbe anche concretamente controllare l’attività scientifica, mentre noi ci troviamo nella situazione in cui sono inibite tanto l’una quanto l’altra, quella terapeutica per le ragioni inerenti quella riproduttiva, che appunto non è la stessa cosa, ed è un pasticcio.
Mi avvio alla conclusione. Pensate ad esempio al dibattito sugli OGM, mica si dicono le cose. C’è chi, come i Verdi e altri da una parte, dice che sono la fine del mondo, e dall’altra parte c’è chi dice che del mondo sono il principio. È inutile discutere in questi termini. Vi suggerisco una lettura sull’argomento che rende bene il concetto, una ricerca fatta dall’Osservatorio di Pavia sulla comunicazione di massa proprio sul «dibattito pubblico» sugli OGM in tv e sui giornali. La conclusione è sconfortante. In realtà l’”informazione” è intesa solo a rafforzare le due posizioni contrapposte in un dibattito che viene definito un «dibattito da stadio». C’è chi è pro e chi è contro. Come tra Milan e Inter, dove è difficile dire chi ha ragione, anche perché non ce l’ha nessuno. Anche qui è difficile dire chi ha ragione. Un contributo essenziale all’attività informativa della popolazione potrebbe essere svolto da organismi come il Comitato Nazionale per la Bioetica, se naturalmente esso fosse qualcosa di diverso da quello che è, e se si desse compiti diversi da quelli che si dà. Se esso fosse davvero rappresentativo delle diverse opzioni etiche presenti nella cittadinanza, se ritenesse come suo compito quello di ispirare il dibattito pubblico imponendo in un certo senso un’informazione corretta alle comunicazioni di massa, come in qualche caso, in altri Paesi, è avvenuto, risulterebbe molto utile. Certo che se il compito che il Comitato Nazionale per la Bioetica si dà – anzitutto nella sua composizione che è univoca e sappiamo in qual senso, o pressoché univoca, salvo pochi e generosi e coraggiosi componenti -, e cioè il compito di fare da consigliere del principe ‑ io direi di fare la foglia di fico del principe, forse è più esatto ‑ e se non si desse il compito di elaborare documenti tanto raffinati quanto astrusi, irrilevanti per l’opinione pubblica, incomprensibili… […].

L’avvenire non è roseo da questo punto di vista, ma mi pare di capire che di documenti non se ne parla più, non ne escono più, vanno molto a rilento e comunque non lasceranno il segno dell’unghia nella cultura comune, nell’informazione comune. Non lasceranno niente, discorsi interni per gli addetti ai lavori, più o meno importanti o utili, ma assolutamente irrilevanti per l’opinione pubblica. Ecco, questo è un punto da superare. […] La scienza non è qualcosa che riguarda soltanto qualcuno, la scienza riguarda tutti e come tale deve essere gestita e conosciuta da tutti come si usa in democrazia o si dovrebbe fare in democrazia, se la democrazia fosse una cosa realizzata.

 

Trascrizione dell’intervento registrato a cura di Nuovamente

 

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