Luigi Vallauri – Nera Luce

La mente-in-sé è come il cielo;

I pensieri sono come le nuvole che lo oscurano,

E gli insegnamenti di un maestro qualificato

Come il vento che li soffia via […]

 

Tu, uomo fortunato,

Sai bene che le apparenze sono in essenza la mente

E che la propria mente è il Buddha […]

 

Se hai realizzato tutto ciò,

Riporta ogni apparenza alla mente stessa;

Osserva la mente giorno e notte;

Per quanto la guardi, non la vedrai.

Rimani nella sfera di questo non-vedere! […]

 

Ricordati che le apparenze sono la propria mente,

E che la propria mente è vuota [,..]

 

Prendendo l’esempio dell’oceano,

Medita oltre a profondità e superficie.

Medita sull’essenza della mente,

Al di là di ogni oscurazione […]

 

Inesprimibile e al di là dei concetti,

La vera comprensione sorge come i pianeti e le stelle;

In qualunque momento si manifesta procura grande beatitudine.

 

Tsang Nyong Heruka, I Centomila Canti di Milarepa, traduzione dal Tibetano a cura di Franco e Kristin Pizzi, Ed. «Rassegna Culturale J.M.», Roma 1989, p. 73 s. e 85.

 

«DIO»:

IMPENSABILE PER LA RAGIONE TEORETICA

E IRRILEVANTE PER LA RAGIONE PRATICA?

di Luigi Lombardi Vallari

da “Nera luce: saggi su cattolicesimo e apofatismo”

 

Il Dio che emoziona

 

Del Dio che emoziona non mi sento di parlare seduto su una sedia. Quindi mentre parlerò di questo Dio starò seduto per terra e quando parlerò del Dio della ragione discorsiva, del Dio professionale dei filosofi teologi e canonisti, tornerò a sedermi a questo tavolo.

Le ragioni di sedere per terra:

1) Il contatto con i popoli del sedere (verbo) per terra, che sono la grande maggioranza dell’umanità: rispetto ai tappeti, ai cuscini; alle stuoie, al semplice legno, alla semplice erba, al semplice fango, alla semplice pietra, le sedie non sono che una penisola del continente umano; tra i momenti certi di felicità della mia vita metto quando, su un barco amazzonico, riuscii a prendere sedere su poco più di un decimetro quadrato di legno sbiancato stagionato, contendendolo alla concorrenza di passeggeri pigiati, e la felicità era la sensazione “sto toccando il fondo comune della condizione umana non sono più nel preservativo di plexiglas della mia condizione di signorino”;

2) il contatto con i poveri; spesso gli uomini del sedere per terra sono anche gli uomini dei piedi nudi e dei sandali infradito, i poveri in dollari e tecnologia;

3) il contatto con Terra, Tellus, Gaia, con solo terra sotto solo cielo, un grounding e un ambiente solo cosmici;

4) il dis-tatto, sia pure velleitario, dal borghesume baronale professorale di cui sono parte, dalle sue pavide sicumere, pallide passioni;

5) il sentimento che non si può parlarNe «a tavolino», in una posizione soggetto-oggetto, da dominatore di problemi, meglio se mai a terra, in scomodità, inferiorità.

 

Vi invito a farlo anche voi o a sentire il disagio di non farlo.

 

Per me il Dio che emoziona è stato, lungo il tempo perduto e ritrovato, cose come:

1) una voce (senza volto) che chiedeva tutta la vita;

2) una arcignità o santità che mi costituiva peccatore;

3) la risposta al problema come ha fatto a farcela l’universo contingente e stupefacente; come ha fatto a farcela alcunché, l’abisso dell’Essere originatore;

4) il Gange dell’umanità in cui si gettava come affluente il Tevere del cattolicesimo romano;

5) musica sentita in stato d’amore contro sfondo di nuvole-ostensori in raggera di raggi di sole e d’ombra;

6) letture sui bordelli infantili di Bombay, di Bangkok, su una bambina torturata, s-dentata, dis-unghiata perché femmina, in Cina;

7) il canto delle sigaraie in Birmania, per sostenersi l’anima nel lavoro di dodici ore un dollaro al giorno, in mezzo a loro sul pavimento di traliccio e tabacco bambini che avevano tutte come madri, il canto che interrotto per noi turisti al nostro andarcene si riappiccava come fiamma a foglie da donna a donna, il canto della mitezza nell’ingiustizia, l’esperienza religiosa più forte di un viaggio pur nell’allora paese più santuario buddista del mondo;

8) letture su vivisezione e atroci maltrattamenti di animali;

9) l’interazione tra coscienza umana e natura nel cuore di ecosistemi preservati: quando la coscienza sente il proprio conoscere la natura come esso stesso opera in lei della natura, e quindi sente come tutt’uno l’interiorità della natura a se coscienza e l’interiorità di se coscienza alla natura; uni-sente che dentro se genera la natura a vita più alta e che è stata generata dalla natura a questo generarla; l’interiorità della natura alla coscienza rende la natura non più ignara, l’interiorità della coscienza alla natura rende la coscienza non più «io»: essa stessa è natura; così che spogliata della sua sovranità contrapposta si abbandona al sentimento avvolgente, ineffabile, della sua filialità; filialità anche proprio nel generare: quindi filialità restitutivamente materna, maternità non onnipotente ma filiale; i due sentimenti sublimi della maternità e della filialità resi una cosa sola nel segno della vittoria della filialità, fusi nel sentimento forse supremo dischiuso all’uomo, il sentimento dell’essere il generare la propria madre opera materna attuale di lei;

10) il sorriso delle sorelle maggiori dell’anima, le esperienze-emozioni alte che quasi buddità sospese in un Prima l’attendono e le tendono la mano;

11) l’irrappresentabile che accade in questo stesso momento: significati intelligibili vengono prodotti e capiti «nei», «dai», piccoli cavolfiori di carne speciale che portiamo racchiusi in custodia ossea sopra le nostre colonne vertebrali.

 

Molte altre cose, molto amate, è stato per me il Dio che emoziona; ma ho detto abbastanza per renderne l’idea. Passo quindi al Dio professionale filosofico, di cui si può benissimo parlare seduti a un tavolo congressuale:

 

 

  1. Dio: impensabile per la ragione teoretica? Vie d’uscita apofatiche

 

1.1. Rivelazione e ontologia

 

Forse la filosofia di Dio in Occidente è, sotto un po’ mentite spoglie, una filosofia della Rivelazione, un commento filosofico della Scrittura. Non si ha l’impressione che senza una notizia di Dio giunta da parte Sua i filosofi sarebbero ascesi, via teologia naturale, al Suo concetto. Viene prima la notizia e poi l’idea. C’è quindi filosofia di Dio principalmente come revelatio quaerens intellectum. «Uno» ha parlato: chi/ cosa è? Si auscultano le categorie concettuali disponibili: l’ontologia, l’assiologia e diceologia, la coscienziologia e personologia, la pneumo/psico/logia, la fenomenologia esistenziale/relazionale – quasi ogni «logìa» …Punto di partenza resta il «Colui» che ha parlato, resta l’Autorivelazione consegnata nelle Scritture.

Oltre che la filosofia di Dio, «filosofia della Rivelazione» potrebbe indicare la vera e propria filosofia del rivelare, dell’atto di rivelazione. Come agisce Dio? In specie, come opera su un cosciente/loquente/scrivente umano? Come attiva i suoi neuroni? Come guida la sua lingua, la sua mano? Sono altrettanti miracoli? Come vengono compiuti? Con volizioni pure? Singole? Quante ne occorrono? Una per parola? Una per frase? Una per pagina? Una per libro? Ne basta una globale per ogni vita di profeta? Come rispettano esse l’assoluta semplicità, unità, in-composizione, in-successività, necessità, non-contingenza di Dio? Come rispettano la libertà dello strumento umano? Quanta parte è di Dio e quanta del profeta? Quanta dell’indicibile e quanta della cultura? Quanta dell’immutabile e quanta della storia?

Ma alla filosofia interessa in genere, più che l’atto (e i contenuti) della Parola, il Parlante. Che si rivela non a filosofi, ma a ispirati/invasati; e si rivela sempre molto peculiare, quasi folkloristico, in ogni caso tribale. Di qui la necessità per i filosofi di razionalizzarlo, scientificizzarlo, universalizzarlo, togliergli ogni aspetto/sospetto di mitopoiesi, fabulazione, proiezione. Di qui, per quei filosofi che vogliono e geometrizzare su Dio e salvare l’origine divina di una specifica linea rivelativa, tensioni formidabili.

Caso esemplare di filosofia di un Rivelatosi è la teologia naturale tomista: ircocervo consistito nell’attribuire all’etnico, geloso, furioso-tenero, bellicamente e giuridicamente feroce, idiosincraticissimo Yhwh e al dolcissimo-spietato «Padre» (postulati tutt’Uno sebbene mai il primo nome venga usato da Gesù e dagli autori neotestamentari per il secondo) impassibili attributi ontologici desunti da una ingegnosamente violentata ontologia generale aristotelica.

Io vorrei provare a prendere sul serio la pretesa universalità logica-ontologica di questa teologia naturale ufficializzata dal magistero ecclesiastico romano. Vorrei cioè lasciare sullo sfondo le coartazioni autenticamente erculee con cui san Tommaso qua e là trasforma in asserite esigenze della ragione le più minute peculiarità storico-positive di Yhwh/Padre e limitarmi a saggiare l’intelligibilità del prodottob teologico-naturale puro o quasi puro (intendo puro di biblismi).

Premetto che una teologia filosofica che muova dalle caratteristiche trascendentali dell’ente in quanto ente, dell’essere in quanto essere, per «dimostrare» l’esistenza di Dio (segnatamente, a partire dalla contingenza del mondo empirico) e per costruire inferenzialmente la sua essenza (segnatamente, a partire dai requisiti di un Ente-necessario-origine-dei-contingenti) non mi sembra tale da legittimare prima facie un giudizio di manifesta infondatezza o insensatezza. Ritengo che gli argomenti di una teologia naturale del tipo detto siano abbastanza forti per imporre al non credente, come minimo, un dovere di pensosità; per rendere più difficile al non credente non credere.

Tuttavia proseguendo nell’esame soprattutto del de essentia Dei s’incontrano scandali, paradossi, rompicapi, antinomie, oscurità (per usare un unico termine, desunto dallo Zen: koan) tali da rendere non meno difficile ai credenti credere. Più si avanza, più Dio si allontana. Ci sono i problemi che il Dio filosofico risolve; ci sono i problemi che il Dio filosofico fa nascere. In nessuna direzione il punto d’arrivo della ragione filosofica risvegliata, realistica, è il possesso borghese di una verità dominabile e circoscritta, di un conto corrente o di una polizza intellettuali; una chiarezza-sicurezza; è, piuttosto, un trovarsi esposti sopra baratri di irrappresentabilità e/o problematicità. Questo vale anche di concetti come l’anima o come la «singolarità iniziale» il cui bang sarebbe il primo stadio dell’universo fisico; vale eminentemente per il concetto di Dio. Le prove della sua esistenza, prima facie forti, consegnano un’essenza che a cercare di afferrarla, di stringerla, deflagra. Come confrontarsi intellettualmente ed esistenzialmente con una simile situazione? Inizierò con una rassegna dei koan relativi all’ontologia tomista-perennis di Dio (koan-D), cercando poi di segnare vie d’uscita più e meno accettabili.

 

 

1.2. I koan-D

 

1.2.1. Tutti i singoli koan suggeriti dall’analisi intellettuale rischiano di occultare quello che è il mega-koan per un organo di conoscenza più completo e decisivo di ogni analisi: il realismo. A flash a barbagli, il realismo trova impossibile che la cosa più importante di tutte sia fatta di niente, non si distingua dal niente, non sia niente. «Dio» non è (non ha) né una materia né una forma. Non rientra in un genus. Non è né un corpo, né una coscienza in un corpo, né un concetto, né un costrutto culturale. Il realismo è continuamente sorpreso dalla domanda lancinante: come può un oggetto in tutto simile al niente «reggere» a braccio teso i pesi sovrumani dell’universo fisico, le complessità imperscrutabili dei sistemi viventi, le creatività delle coscienze; che senso ha dire che Ciò agisce, se è assolutamente impossibile accorgersene? L’insidia dei koan analitici sta nel distogliere l’attenzione, l’energia, dal koan realistico. Anzi: mostrare sotto sempre nuovi aspetti l’estrema stranezza di X può veicolare subliminalmente la presupposizione tacita che X, visto che se ne parla senza discutere l’opportunità di parlarne, esista. Dio è di quelle cose che esistono a parlarne. Anche farlo deflagrare in koan, anche negarlo è parlarne. Quindi è conferirgli esistenza. Ed è anche conferirgli essenza. Criticare tutte le descrizioni dell’Iceberg inesistente induce pur sempre l’impressione che si stia parlando di una cosa che somiglia comunque molto a un iceberg, mentre un iceberg inesistente è, nella realtà, identico a un unicorno, alla flotta da guerra svizzera e a ogni cosa inesistente. I koan mostrano che Dio è come se non fosse.Ma il modo più giusto di parlare di una cosa come-inesistente è parlare d’altro.

 

1.2.2. I koan-D possono dividersi in due gruppi: quelli riguardanti D «in sé», quelli riguardanti D nel suo rapporto col mondo e con gli uomini.

Procederemo esponendo anzitutto le tesi della teologia naturale; possono considerarsi già koan esse stesse, per la loro estrema astrusità e separazione da ogni esperienza. Le integreremo occasionalmente con espliciti koan ulteriori, in genere attinenti ad aspetti di incompatibilità/contraddizione. Inizieremo dai koan del primo gruppo e dall’attributo della Semplicità. D non è solo immateriale, incorporeo, inaccessibile a ogni rilevazione sensoriale o strumentale. È anche assolutamente semplice: uno, indiviso e indivisibile, non composto di parti né fisiche (estese) né metafisiche (come materia e forma).

«È» (non «ha») la sua essenza o natura: non ne rappresenta quindi un caso particolare, un individuo, non c’è in lui distinzione tra natura e principi(o) d’individuazione. Esaurisce interamente la sua essenza o natura, che non è quindi moltiplicabile, partecipabile. Inoltre, essendo Necessario, non conosce neppure la composizione (che affligge invece tutti gli esseri contingenti, angeli inclusi) tra essenza ed esistenza: la sua essenza (che è Lui) comprende tra i suoi tratti (o addirittura «è») l’infinito, incondizionato esistere. D non è una divinità che esiste; forse non è nemmeno l’Unico D, il quale per essenza esiste; è la divinizzazione stessa dell’esistere, l’Esistere in persona che esiste; essere D è non essere altro che Esistere. Altrimenti ci sarebbe distinzione essenza-esistenza. Infine, D è (l’unica) sostanza senza alcun accidente o alcun che di accidentale: non c’è, per esempio, D e questo o quell’atto (di conoscenza, d’amore); qualunque aspetto o atto si trovi in D è D, tutto D, il tutto di D; qualunque cosa si trovi in D è una sola, sempre la stessa, identica a tutte le «altre»: è D, l’unico D. Ogni atto di D è D e può essere adorato come D.

Koan particolare: Sembra certo che D possa conoscere certe cose (cattive, o solo-possibili, o «futuribili») senza amarle/volerle/crearle. Non implica, questo, distinzione di «facoltà»? Esempio principe: D conosce l’unica effettiva storia dell’essere e la vuole/crea; conosce anche tutte le altre possibili storie dell’essere e non le vuole/crea; quindi c’è in D distinzione tra conoscere e volere/creare, o l’atto di creazione dell’extra-divino non è il tutto di D.

 

1.2.3. Torniamo sul punto che D è l’Atto d’essere sussistente, «Ipsum esse subsistens, Ipsum esse separatum subsistens». L’indistinzione essenza-esistenza va spiegata come primato dell’esistenza: proprio l’esistenza è l’essenza. Non c’è in D un’essenza («divina») che «limita» (o in qualsiasi modo qualifica) l’essere/esistere; c’è il puro essere/esistere «illimitatamente».

Koan: Cosa vuol dire esistere illimitatamente? È giusto usare avverbi per un verbo come esistere? Soprattutto: Cosa vuol dire che l’esistere è Qualcosa che sussiste? Cosa vuol dire che esiste una sostanza-esistere? Cosa vuol dire che un verbo all’infinito è una sostanza che sussiste? Può l’esistere non essere l’esistere di qualcosa che esiste? Può un esistere essere l’esistere dell’esistere? O dell’Esistere? (Che significato hanno in tutto questo discorso le sempre usate maiuscole?). Dato che l’essere in sé (e non in alio) è appunto il sussistere, dire «Ipsum esse subsistens» è dire «Ipsum subsistere subsistens». Ma cosa è mai il Sussistere sussistente? La sussistenza del Sussistere?

Domande analoghe colpiscono asserzioni come «Deus est Ipsum intelligere subsistens», «Ipsum velle subsistens»: tutte sostanze-infiniti di verbo. Che per di più si desumono da «Ipsum esse subsistens», anzi sono tutt’uno con esso. E questo pone il problema ulteriore: non è acrobatico (e sotterraneamente desunto dal D delle religioni) leggere nell’Esistere esistente anche tutti gli attributi come Intelligenza, Volontà, Autocoscienza, Sapienza ordinatrice, Perfezione morale, Amore, Misericordia? Essere Persona non aggiunge proprio nulla a Esistere? Ci si può rivolgere a un Signore chiamato Esistere? Un corollario è che gli attributi divini sono degli astratti concreti, degli astratti sussistenti.

Sui «nomi divini»: «nomen concretum non convenit Deo, quia Deus est simplex; nec nomen abstractum, quia Deus est subsistens». Non si può dire «D è sapiente» come se ci fosse Qualcuno dotato (tra l’altro) di sapienza; e non si può dire «Dio è Sapienza» perché gli astratti non sussistono.

Allora? (La risposta «nomina abstracta ad significandam simplicitatem ejus, et nomina concreta ad significandam subsistentiam ejus» è di quelle che meritano stupore perché sono accadute e riflessione).

Koan: qui veramente sono koan gli enunciati stessi Sostanze verbo-all’-infinito; verbi-all’-infinito persone; il tutto letto nel verbo-all’infinito «essere, esistere» Un unico verbo che sussiste è tutte queste cose.

 

1.2.4 D è assolutamente Immutabile, non solo passivamente, nel senso del non subire mutamento, ma anche attivamente, nel senso del non produrre in sé eventi, per esempio singoli atti di conoscenza, amore, creazione. Perciò D è insuccessivo è già tutto il suo destino interamente attuato fin dall’inizio per sempre Senza tempo, ogni «momento» di D è l’intera sua storia già definitivamente conclusa i «momenti» di D sono in numero di uno:

A D non accade (mai) nulla; D è, in un Istante, l’accadimento di sé e di tutto Visto dalla prospettiva più reale, il Tutto, se c’è D, è un flash immobilizzato, un lampo solido.

Koan: Come è strana una vita senza crescita e divenire; come é strana una vita personale senza storia; come è strana una storia senza avvenimenti; come è strana un’attività senza atti; come è strano un onnipotente che non fa mai nulla di nuovo; come è strano un pensiero che non cambia mai oggetto; come è strano un amore già sempre soddisfatto (Come è strano tutto ciò e come ci affascina).

 

1.2.5 (collegato a 1.2.4.). D non può acquisire perfezione, per esempio morale. Non può diventare migliore (diversamente che negli angeli, in D non c’è mutamento connesso a una scelta buona).

Non può «meritare». Quindi la sua santità (come tutto in lui) è un puro dato di fatto, non una conquista: D non ha alcun merito a essere santo. Tutto quello che vale, lo vale per diritto di nascita; per quello che si è trovato fin dall’inizio a essere, non per quello che ha fatto di sé.

Koan: Non ha più valore una santità raggiunta con merito di furia congenita, inevitabile, irrinunciabile? D sembra essere, in fatto di santità come in tutto, il «figlio di papà» assoluto. (By the way: cosa vuol dire che l’Atto d’essere sussistente è santo? Meglio: che la santità sta nell’essere l’Atto d’essere sussistente?).

 

1.2.6. Una tensione fortissima nell’essenza di D: quella tra Onnipotenza creatrice propria della Causa efficiente universale libera (astraggo qui dall’evento per così dire empirico della creazione «storica») e Logos. Con logos intendo l’insieme delle entità o leggi o verità necessarie ed eterne, l’insieme delle condizioni a priori (matematiche, logiche, ontologiche) di possibilità della manifestazione; tutto l’increato non divino, coeterno a D, che D non può né produrre né abolire e che esisterebbe «etiamsi daremus non esse Deum». D è onnipotente sui contingenti ma non sui necessari; è un sovrano non tirannico, ma «ontologicamente costituzionale»: sottoposto al logos appunto. Il logos ha infatti tutti i caratteri tipici di D salvo quelli personali e quelli propri della causalità efficiente: è necessario, eterno, increato, unico, onnipresente; esercita una co-causalità con qualunque atto creativo libero, perché nulla di empirico/contingente può venire in essere senza l’intervento plasmante e contro i vincoli inviolabili del logos. Questa sua para-divinità lo rende una sorta di rivale di D per non dire suo superiore; non è chiaro ne come possa essere interno, né come possa essere esterno alla volontà di D fonte libera di tutto l’essere.

D risulterebbe non onnipotente ne onnicausale, in quanto e «limitato» e «coadiuvato» dal logos. In altre parole: sembra ripugnante che principi necessari dipendano, in qualsiasi modo, da un intelletto o da una volontà; sembra che possano solo essere riconosciuti, non posti in essere; e dunque «subiti»; sia pure «ben volentieri»; sia pure da D.

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