Desi Bruno – Ripensare le forme della pena rieducativa

Il carcere è tornato di nuovo alla ribalta,ancora il sovraffollamento, l’aumento dei casi di suicidio, di malati di Aids,la protesta dei detenuti sottoposti al regime “duro” dell’art. 41 bis. Nei dibattiti e negli interventi sul tema si continua a parlare di rieducazione, di finalità  costituzionale della pena,di recupero ed integrazione,della necessità o meno di ampliare le misure alternative al carcere. Eppure sarebbe bene fermarsi e guardare a quel “fuori” dal carcere a cui tutti, a favore o contro, si richiamano.

Nel nostro paese è presente una massa crescente di persone detenute, per le quali la pena rieducativa, a  prescindere da quello che ciascuno di noi può pensare sulla validità dell’opzione ideologica che la sottende,appare un concetto fuori dalla realtà. Si tratta,è evidente,della popolazione straniera,quasi tutta irregolare, priva di radicamento legale con il territorio, destinata, una volta espiata la pena, ad essere espulsa, comunque, e a prescindere dal percorso maturato nel corso della detenzione.

E’ noto che il dato relativo alla presenza degli stranieri è destinato ad aumentare: l’inarrestabile flusso migratorio, le difficoltà di ingresso ed inserimento nel paese di arrivo, i meccanismi di repressione sempre più marcati,  la precarietà socio-economica che sottende tutto ciò. A ciò si aggiunge che i periodi di detenzione per molti stranieri sono più lunghi, per mancanza di una adeguata difesa, perché spesso i magistrati basano il giudizio  di pericolosità sociale sulla condizione di clandestino – senza documenti-casa-lavoro, a volte per difetto di comprensione di quello che sta succedendo.

Ora, se vale la finalità rieducativa della pena e deve valere, è ovvio per tutti, bisogna constatare che per un numero crescente e assai considerevole di persone quella finalità non può essere perseguita o, nella migliore delle ipotesi, può esserlo in modo differente.

Le misure alternative al carcere, semilibertà, affidamento, detenzione domiciliare, lavoro esterno presuppongono relazioni sociali, un lavoro(e quindi un regolare permesso di soggiorno), una casa, con qualche eccezione nella normativa che aiuta fiscalmente le imprese che assumono detenuti in corso di esecuzione pena, anche stranieri, per i quali per il tempo del contratto si deroga alla regolarità della permanenza sul territorio. Strumento poco utilizzato, che però non salva dall’esito scontato dell’espulsione.

Rendiamoci conto di essere davanti ad un nuovo scenario, impensabile ai tempi della nascita nel 1975 dell’ordinamento penitenziario e ancora lontano nel 1986 ai tempi della legge Gozzini. E questa realtà ci impone di ripensare oggi il senso politico e  le forme di attuazione del principio costituzione che vuole una pena rieducativa, capace di reimmetere nel circuito sociale, forse oggi da riferire anche alle società di provenienza verso cui gli stranieri vengono poi rimandati.

E’ possibile oggi ipotizzare la rieducazione di chi verrà espulso? E quali forme differenziate di trattamento si possono utilizzare, atteso che l’elemento centrale, per chi è in carcere, dovrebbe essere quel lavoro che non c’è, che diventa una meta sospirata, anche per un periodo brevissimo, da parte di molti poveri della terra?

Ed ancora: che significato avrà, comunque, parlare di rieducazione con riferimento a persone che approderanno al carcere per il solo fatto di non avere il permesso di soggiorno, senza avere commesso alcun reato, neppure il più modesto, per avere magari tentato con tenacia di affermare il proprio diritto ad una esistenza libera dal bisogno e dall’oppressione e che solo per questo sconteranno pene via più severe?

E quando si dice, anche a sinistra, che bisogna ridurre il sovraffollamento, sembra ignorarsi che si è formato, da tempo, un doppio binario anche nella esecuzione della pena, e che la possibilità di contenere il numero dei detenuti non può riguardare, se non in minima percentuale, gli stranieri, a meno che già residenti e socialmente inseriti.

Questo è il dato oggettivo, da cui bisogna partire per un ragionamento complessivo sul significativo e ruolo della penalità, oggi, che tenga conto del mutamento strutturale dell’universo “carcere” nel rapporto con l’esterno. Con ogni probabilità alcune delle categorie socio-giuridiche sino ad oggi utilizzate appaiono in parte svuotate di significato. Il tema è complesso, e non basta essere contro, dimenticando i dati di realtà.

Dobbiamo imparare a non lasciare ad altri il dibattito su argomenti anche difficili, forse laceranti. E il carcere è uno di questi.

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