I. Identità dei luoghi e identità individuale

Di Francesco Calzolaio

 

Introduzione

Quotidianamente, per i motivi più vari, ci troviamo a frequentare una molteplicità di luoghi. Conduciamo una vita di quartiere, abbiamo degli itinerari più o meno obbligatori per raggiungere il posto di lavoro, delle strade che preferiamo ad altre, delle abitudini legate ad una zona particolare del territorio come una piazza o un monumento all’ombra del quale amiamo conversare. In altri termini, ogni giorno necessariamente agiamo una serie di luoghi, riscoprendone di tanto in tanto un particolare nuovo, che tendiamo a vedere come statici, perlopiù immutabili, immuni dall’incedere del tempo. Inavvertitamente, tendiamo anche a classificare questi luoghi; una zona della città ci trasmette una particolare sensazione di sicurezza e di conforto, altre meno, altre ancora ci rifiutiamo di frequentarle, o anche solo di passarci, perché le riteniamo poco sicure o ci rimandano ad avvenimenti, valori, sensazioni e quant’altro abbia ai nostri occhi una valenza negativa.

Ad ogni modo, ognuno di noi agendo un dato territorio costruisce e interiorizza una mappa, ovviamente soggettiva, dello spazio che si trova a vivere i cui punti focali, cosa sia focale e cosa no è una decisione che spetta tendenzialmente al soggetto, non sono solo strade, edifici e monumenti ma anche significati cogenti, vivi, pronti a orientare le nostre scelte e a stimolare determinate emozioni. Questi significati risiedono e ci sono trasmessi dalla particolare organizzazione dello spazio che viviamo, rivestono i più banali luoghii e resistono al tempo in modo disuguale.

Perché accade questo? E soprattutto: quali sono, se ce ne sono, le conseguenze del nostro quotidiano agire lo spazio? È possibile avere riscontri concreti e obiettivi di questo fenomeno o, in altri termini, è possibile verificarne scientificamente la portata? Possiamo tentare di rispondere a questa serie di interrogativi ricorrendo all’ausilio delle scienze sociali e in particolar modo dell’antropologia, osservando la questione da una punto di vista più congruo, ampliando sensibilmente la prospettiva di indagine e chiarendo il significato dei termini che useremoii.

È naturale a questo punto chiedersi quale sia l’ottica da seguire e dove si possa arrivare partendo dalla mera constatazione che la vita quotidiana di ognuno di noi si svolge nello spazioiii. Ebbene, l’attenzione sarà centrata principalmente sui simboli, i significati ai quali prima si accennava, che animano ai nostri occhi i luoghi dello spazio di ogni giorno e sul rapporto tra questi simboli e l’individuo. Al centro dell’analisi dovremo porre quindi la relazione tra l’identità dei luoghi e l’identità degli individui che li frequentano, o meglio, li agiscono. Cercheremo di osservare le caratteristiche principali del rapporto, dialettico e circolareiv, che si instaura tra il soggetto, l’uomo nella sua accezione più generale, e il suo ambiente.

L’impostazione generale di questo primo capitolo verterà sull’osservazione di un duplice movimento, che sarà tacitamente assunto come schema della ricerca: l’azione dell’uomo sul territorio e la re-azione di questo sull’individuov. Circa l’organizzazione complessiva del presente lavoro, possiamo fin da ora parlare di tre fasi: un inquadramento teorico della questione dal punto di vista antropologico (cap. I) cui farà seguito una introduzione alla storia dei luoghi, fisici, della città di Bologna che hanno costituito l’oggetto della ricerca (cap. II) e, infine, l’analisi delle interviste effettuate dagli studenti dell’Istituto superiore “A.B. Sabin” di Bologna alla luce dei risultati conseguiti nei capitoli I e II.

Cultura, identità e luoghi

In un suo celebre saggio, Interpretazione di culture, C. Geertz si sofferma sulla questione dell’incompletezza biologica dell’uomo, sulla sua incapacità cioè di vivere in base alla mera dotazione biologica di cui dispone fin dalla nascita e sulla conseguente necessità di «costruire» un sistema di significati e modelli di comportamento indispensabili tanto al vivere quotidiano quanto alla sua realizzazione esistenziale. In altri termini, Geertz ci invita a riflettere sul fatto che non è corretto vedere la nascita della cultura come conseguenza, logica e cronologica, dell’evoluzione e del completamento biologico; al contrario, la vita e la produzione culturale sono condizioni dell’evoluzionevi biologica.

Ma cosa si intende per cultura in termini antropologici? Normalmente si è indotti a pensare alla cultura come ad un insieme complesso di cerimonie, costumi, leggi e istituzioni in un certo senso distanti e sovrastanti l’uomo, o perlomeno l’uomo «comune», qualsiasi cosa esso sia. Si tende cioè a percepire la cultura come una entità «alta» e paradossalmente distante dall’essere umano. Lo sguardo antropologico ci permette però di andare ben oltre questa visione, in un certo senso banalizzando il concetto di cultura che da appannaggio delle élites intellettuali diventa quanto di più vicino ed essenziale l’uomo possa trovare nel mondo in cui vive. Cultura, provocatoriamente, si può dire tanto della Divina commedia quanto di un arco o di una pietra affilata.

Il fatto evidente che gli stadi finali dell’evoluzione biologica dell’uomo vennero dopo le fasi iniziali della crescita della cultura implica che la natura umana “basilare” “pura” e “incondizionata” nel suo senso della costituzione innata dell’uomo è tanto incompleta funzionalmente da risultare insufficiente. Gli attrezzi, la caccia, l’organizzazione familiare e poi l’arte, la religione e la “scienza” modellarono l’uomo somaticamente, e sono quindi necessari non solo alla sua sopravvivenza ma alla sua realizzazione esistenzialevii.

Perché, è opportuno chiedersi a questo punto, «abbassare» e «banalizzare» il concetto di cultura? Cosa ci dà questa operazione in più rispetto alla concezione «alta» della cultura? La risposta, come traspare dalle parole di Geertz, sta nel fatto che solo in questo modo è possibile ridurre la questione nei suoi minimi termini e osservare le unità costitutive del concetto stesso di cultura.

Cosa hanno in comune un complesso, e ai più inaccessibile, modello matematico, una teoria filosofica, un’opera d’arte e un rudimentale attrezzo da caccia? Una sola cosa: sono tutti costituiti e consistono di «segni», unità minime di significato che insieme danno origine al significato complessivo e specifico di una data entità (sia essa appunto un modello matematico, un’opera d’arte o una pietra affilata). Utilizzando il più banale oggetto, non vediamo, si fa per dire, altro che i segni che ne costituiscono il senso e che il più delle volte lo trascendono rimandando ad altre realtà pur sempre culturali. Inoltre, è bene dirlo sin da ora, i significati che «rinveniamo» in un dato oggetto culturale sono già, e indipendentemente dal singolo che li agisce, organizzati tra di loro e si presentano con una certa unità e coerenza interna.

Ma qual è la funzione e a quali dinamiche soggiacciono questi «segni», in altri termini, come funzionano? Il passo di Geertz sopra citato terminava con l’affermazione che gli oggetti culturali sono necessari alla «sopravvivenza» e alla «realizzazione esistenziale» dell’uomo e la ragione di ciò sta nel fatto che ogni elemento (fisico come un edificio o astratto come un concetto) di una data cultura incarna e veicola una serie di significati dei quali l’individuo si appropria, agendo il dato elemento culturale, e che riutilizza nella quotidianità per le più svariate operazioni ma soprattutto per dare un significato al mondo che lo circonda, sia esso il villaggio che non abbandonerà quasi mai o la metropoli cosmopolita in cui si trova per motivi di lavoro. La cultura stessa è, antropologicamente parlando, in ultima analisi un complesso di significati organizzati, una particolare (sempre e irrinunciabilmente particolare) unità di sistemi interconnessi di «segni interpretabili»viii che l’uomo assimila attraverso la fruizione, l’utilizzo o la «cura» di ciò che gli sta intorno. Con questa operazione, che nella vita di un individuo non può avere una conclusione se non con la morte, l’uomo comprende se stesso e il mondo che egli stesso ha creato (organizzandolo) fin nei suoi significati più elementariix. Inoltre, l’individuo agendo la sua cultura acquisisce non solo le nozioni delle cose ma anche i valori che la sua società attribuisce in qualche modo ad esse traendo da ciò dei veri e propri modelli di comportamento che orienteranno le sue scelte e azioni.

Ricapitoliamo i termini della questione: l’uomo vive nello spazio e nel tempo «nutrendosi» dei significati che trova nella sua cultura; ma così facendo, aggiungiamo ora, egli vive anche lo spazio ed il tempo secondo i canoni e i significati che, secondo la sua cultura, li caratterizzano e costituiscono. Tranne che per il fisico o chiunque studi questi fenomeni dal punto di vista scientifico (e li viva, come tutti i suoi simili, solo al di fuori del laboratorio), spazio e tempo sono, nella quotidianità, entità in primo luogo culturali che vanno perciò comprese entro i termini della cultura stessa. Lo spazio, ed è questo il punto che ci interessa, esiste in quanto è percepito, è percepito in quanto dotato di significato ed è dotato di significato perché è uno spazio organizzato socialmente; non può esistere uno spazio privo di significato, possono cambiare i segni che un dato spazio veicola e comunica ma non possono cessare del tutto di essere, pena la scomparsa di quello spazio in una sorta, mi si consenta l’espressione, di «buco nero epistemologico». Si può quindi dire che là dove non esiste cultura non esiste neanche spazio. Al riguardo Remotti scrive che:

La cultura è […] un intervento modificatore dello spazio e dei corpi che lo abitano mediante la produzione di “abiti” (di costumi, di mores), i quali conferiscono a corpi ed animi un’impronta, uno stile, una foggia, una forma particolare di umanità.

[…] alla base della cultura troviamo la “scrittura”, intesa come «un’attività universale e continua» di incisione di segni su luoghi e corpix.

Attraverso questa attività continua di «incisione di segni su luoghi e corpi», il mondo assume una particolare fisionomia: assume una struttura riconoscibile e familiare all’interno della quale poter trovare i significati, i valori e le emozioni sui quali orientare le proprie scelte ed azioni. In base al sistema di significati assimilati, in termini generali, l’individuo potrà pensare, avrà cioè la materia prima da elaborare, metabolizzare e sintetizzare nei suoi pensieri quotidiani.

F. Remotti, commentando il riferimento di Geertz all’importanza dei mercati e delle piazze per il pensiero umano, afferma che:

sono questi i luoghi di formazione del pensiero e delle emozioni – luoghi sociali in cui si scambiano parole, gesti, suoni, luoghi di «traffico di simboli significanti» (Geertz 1987, 87) – È da questi luoghi che le forme di pensiero e di emozioni giungono agli individui, i quali ovviamente provvedono a modificarli, ad attualizzarli, solo in quanto però abbiano partecipato almeno un po’ al «mercato» delle idee e dei sentimentixi.

Appropriarsi di una serie di significati e valori, farli propri ed utilizzarli nel quotidiano per ricavarne un generale senso di orientamento nel mondo alla luce del quale interpretare anche sé stessixii, significa in ultima istanza costruire un’identità, stabilire dei confini più o meno statici rispetto all’altro, il secondo polo di una relazione necessariamente dialettica. Il termine stesso «organizzazione», riferito o meno allo spazio, indica di per sé un’azione di delimitazione, un intervento teso alla riduzione delle possibilità, una costruzione di confini tra elementi che, in quanto circoscritti e limitati nelle loro possibilità di essere, possono essere organizzati.

Comincia a delinearsi in tutta la sua complessità e centralità il tema della fruizione dei luoghi: siamo partiti dalla supposta carenza biologica dell’uomo cui sopperisce la cultura, creatrice dello spazio all’interno del quale l’essere umano può orientarsi, per arrivare a dire che i risvolti di questa infaticabile attività creativa sono visibili nei momenti più normali della nostra vita. Quasi fosse un contadino che scende nel campo per raccogliere i frutti della terra, vediamo l’individuo praticare i suoi luoghi traendone sostentamento simbolico e semantico, ciò di cui necessita per pensare e costruirsi un’identità.

Ma c’è dell’altro. Il condensarsi di significati su di un dato oggetto culturale non è un processo senza regole, non è detto cioè che ogni «segno» sia assunto ed entri nel sistema coerente di significati afferente un dato elemento della società per il solo fatto di aver visto la luce. I simboli sono infatti continuamente selezionati, alcuni persistono più di altri, alcuni sono riesumati dopo periodi di quiescenza, altri ancora avranno una vita assai breve o non riusciranno mai ad imporsi. È proprio nella continua selezione di segni e significati che sta il «farsi» di ogni società, la sua vitalità, la magia dell’imporsi sulle tenebre (dell’assenza di cultura)xiii.

Proviamo adesso a riportare quanto detto finora al rapporto specifico tra identità dei luoghi e identità individuale. Una dimensione o sfaccettatura più «fisica» del concetto di spazio fin qui delineato è ciò che comunemente chiamiamo «paesaggio», termine alquanto vago e indefinito che è ora possibile chiarire e definire. E. Turri in un certo senso «traduce» quanto si è astrattamente detto a proposito dello spazio definendo il paesaggio come «organizzazione di significati, insieme di segni interconnessi a cui corrispondono legami concreti sul territorio»xiv e aggiunge che:

Il paesaggio esiste e di esso si può parlare in quanto c’è un soggetto – l’uomo – che lo percepisce, lo vive, lo rappresenta, lo racconta, lo descrive e lo studia. Senza l’uomo che lo percepisce e lo rappresenta non esiste paesaggioxv.

Possiamo considerare quindi il paesaggio come l’equivalente concreto del concetto astratto di spazio. Entrambi infatti condividono le stesse caratteristiche e modalità dinamiche, sono la stessa cosa vista da due punti di vista un po’ differenti: di entrambi si può dire che sono il risultato di un’organizzazione di significati senza la quale non esisterebbero e per entrambi vale il principio della selezione, culturale, dei significati costitutivi.

Continuando con questa operazione di «traduzione», possiamo intravedere dal vivo la nascita dei segni o simboli di cui abbiamo parlato.

Ogni paesaggio è in sostanza una concrezione di eventi, un insieme di orme, di segni, di «memorie»xvi.

Concretamente parlando, infatti, i segni di cui abbiamo finora parlato sono significati storicamente originati e «addensati» intorno ad un dato oggetto che da essi ha tratto la sua ragion d’essere attuale, non da uno solo di essixvii, ma dalla loro totalità (selezionata). Un paesaggio è un insieme coerente di sistemi di simboli, vale a dire di significati condivisi, con una forte valenza emotiva e «moralizzante»xviii. Come lo spazio, il paesaggio veicola, e non potrebbe essere altrimenti, dei «modelli esistenziali»xix, più o meno attraenti, che invitano l’individuo a pensare in un dato modo invece che in un altro, lo guidano nell’interpretazione dei simboli che incontrerà in altri luoghixx e, più in generale, orientano il suo particolare stare al mondo.

Riguardo la selezione dei significati, si deve a questo punto introdurre una caratteristica essenziale del paesaggio/spazio: la sua coerenza internaxxi. Perché i significati esistano e siano organizzati, l’incoerenza deve essere evitata o perlomeno ridotta ai minimi termini. Una coerenza assoluta è assai rara e difficile da mantenere; entro certi margini di elasticità tuttavia gli elementi di un insieme devono poter combinarsi tra di loro pena il cattivo o non funzionamento del sistema stesso. Esempi di tal genere sono osservabili quasi quotidianamente nella vita di una città: nei movimenti che si oppongono ad una data costruzione (sia essa un «ecomostro» o anche semplicemente un edificio che mal si integra con il resto del paesaggio) o anche semplicemente nei commenti critici verso una qualsiasi novità ritenuta in contrasto con lo spirito del luogoxxii. Il problema della coerenza è inoltre particolarmente evidente ed attuale nell’opposizione che la cultura dominante mette in opera contro i tentativi di «intrusione»xxiii da parte di una cultura marginale o comunque non dominante e «altra». La cosiddetta «società multietnica» infatti, o più che altro le fasi di transizione verso una società multietnica, mostrano quanto sia difficile introdurre significati evidentemente «altri» in un dato sistema culturale. Basti pensare ai movimenti che si oppongono alla costruzione di nuove moschee o di quant’altro rimandi ad una cultura lontana dalla nostraxxiv come quella musulmana. Ebbene, dal punto di vista antropologico questi fenomeni possono essere visti come conflitti tra sistemi di simboli e reazione della società dominante ad un tentativo di «intrusione» di elementi incoerenti, non congrui con i sistemi di pensiero in auge. Ciò che di queste novità viene percepito dalla società dominante, che, è bene ricordare, è pur sempre costituita da individui, è la messa in discussione dell’immutabilità del suo assetto simbolico, del suo ordine valoriale e della sua organizzazione interna. A contatto con simboli alieni la cultura dominante può essere relativizzata, perdere la cogenza che la contraddistingue ed entrare in crisi; una reazione si rende perciò necessaria ed ecco la contrarietà, le manifestazioni di protesta ed i tentativi di rimozione dell’altroxxv.

Si è finora parlato del significato dei luoghi, del bagaglio semantico che portano con sé e della loro importanza ai fini dell’orientamento dell’individuo nel mondo. Si deve adesso affrontare un’altra questione, o meglio, si può introdurre un altro angolo di osservazione: se è vero che l’uomo, agendo quotidianamente i luoghi, ne assimila i significati (luogo à individuo), cosa si può dire invece dell’azione dell’uomo su di essi (individuo à luogo)? È possibile osservare un momento concreto del farsi o del permanere di questi segni nei rispettivi luoghi? La risposta è affermativa: i rituali di commemorazione sono, tra le altre cose, dei meccanismi di perpetuazione dei significati ed è a questi meccanismi che si rivolgerà il prossimo paragrafo.

Rituali di commemorazione e mantenimento dei modelli culturali

Il Due agosto, ogni anno, ci si raccoglie nel piazzale della stazione di Bologna per ascoltare le parole dei familiari delle vittime della strage e gli interventi di vari personaggi politici. Il motto che unisce tutti i partecipanti è «per non dimenticare!»; la volontà di non lasciare che il flusso del tempo confonda il significato della crepa sul muro della sala d’attesa della stazione si concretizza nel bisogno percepito e condiviso di riunirsi (uomini, donne ed autorità) e riattualizzare un momento tragico della storia della città e della nazione intera.

Nei termini che abbiamo utilizzato nel paragrafo precedente, ci troviamo di fronte alla difesa del significato specifico di un luogo.

La stazione di Bologna, come ogni stazione di grandi dimensioni, incarna una moltitudine di significati e di sistemi di significati. Sono pochi gli esempi che si prestano in modo così esplicito a dimostrare l’estrema polivalenza semantica che un luogo può assumere. Un nuovo modello di treno ci trasmette la sensazione di modernità, velocità ed efficienza; una vecchia locomotiva in transito dimostra l’esistenza di un passato lontano e romantico; gli oggetti caratteristici in vendita nelle attività commerciali richiamano alla mente immagini stereotipate della città (le due torri e il Nettuno per esempio) e le tavole calde, spesso succursali di aziende nazionali o multinazionali, offrono piatti tipici, o meglio offrono la tipicità del luogo, oppure internazionali (come gli hamburger) e rappresentano così la cosiddetta «globalizzazione», dei costumi e dei gusti. Cosa sia centrale e cosa secondario tra i significati elencati è cosa assai ardua da dire e probabilmente non ha poi tanto senso, basti la constatazione della polivalenza simbolica di un luogo così particolare come può essere una stazione ferroviaria.

Come si inscrive l’annuale commemorazione della strage di Bologna in questa «caotica» realtà? V. Turner, in un’opera dal titolo quantomai emblematico, La foresta dei simboli, parla di tre proprietà dei simboli rituali dominanti: condensazione dei significati, unificazione dei significata più disparati e polarizzazione del significato intorno ad un simbolo dominantexxvi. Possiamo tralasciare il secondo elemento per concentrare l’attenzione sui concetti di «condensazione» e di «polarizzazione», prenderli in prestito e utilizzarli ai fini di questa ricerca (facendo su di essi anche una certa «violenza»).

Condensare, che nella nostra prospettiva significa mettere più elementi/significati in un’unica forma o contenitore, è un’operazione che va di pari passo con la polarizzazione, l’orientamento verso una data direzione (tra due o più direzioni possibili) ed entrambe sono dimensioni costitutive dei rituali di commemorazione. La difesa rituale della memoria può essere rappresentata infatti dall’insieme di due momenti: la condensazione di più significati in uno o in una serie circoscritta di azioni altamente simboliche (come l’apposizione di una corona di fiori) e la tendenza a polarizzare e dirigere, anche per un solo giorno come avviene per la commemorazione della strage di Bologna,  l’intera gamma di significati riconducibili ad un luogo verso uno o una classe particolare di significati e valori che si vuole, o è già, dominante. Durante ogni commemorazione la strage, lo strazio e la rabbia dei familiari, il conflitto tra lo Stato e il terrorismo, le inchieste e i dubbi che ancora persistono sono sintetizzati nella breve serie di azioni cui dà luogo il rituale – condensazione – mentre i vari sistemi di significato coesistenti che abbiamo elencato in precedenza sembrano piegarsi alla centralità della cerimonia ed essere meno presenti rispetto agli altri giorni – polarizzazione. Il Due agosto a Bologna la stazione è la strage dalla quale fu sventrata e non c’è posto per i simboli della globalizzazione o della tipicità regionale. I segni dominanti sono quelli legati all’attentato, essi vengono rievocati ritualmente, conservati e protetti dal tempo, imposti per un breve periodo agli altri significati che affollano la «foresta».

In modo analogo possiamo interpretare le altre commemorazioni che ogni anno ricordano, per esempio, l’uccisione di Francesco Lorusso o la battaglia di Porta Lame. Cambiano i significati coinvolti, come è naturale, ma la funzione principale e la struttura del rituale sono praticamente le stesse: conservazione e rivitalizzazione dei simboli della memoria attraverso le due fasi logiche del rituale di cui si è parlato.

Concludiamo con le parole dello stesso Turner:

I simboli rituali sono nello stesso tempo referenziali e di condensazione, pur essendo ciascun simbolo multireferenziale piuttosto che unireferenziale. La loro qualità essenziale consiste nell’ancorare l’immediatamente fisico e lo strutturalmente normativo, l’organico e il socialexxvii.

Conclusioni

In questo primo capitolo si è cercato di mostrare l’importanza simbolica e la polivalenza semantica dei luoghi, il ruolo insostituibile che l’organizzazione dello spazio svolge ai fini dell’orientamento degli individui nel mondo e alcuni meccanismi di protezione del significato di un luogo.

Si sono in un certo senso costruiti gli strumenti interpretativi idonei e necessari per proseguire l’indagine sulla memoria territoriale; una base teorica e una guida, una griglia che rende comprensibile l’idea di «topografia del simbolico» e di «stratificazione dei significati» e che necessita ora di una messa in opera, una verifica sul campo della sua validità. Procederemo quindi con una presentazione dei luoghi selezionati per l’indagine, in tutto sette, e con una finale analisi delle interviste effettuate dagli studenti dell’Istituto superiore “A.B. Sabin” di Bologna.

i In questo senso, distinguere tra una cattedrale e l’anonimo parcheggio di un supermercato significa solo dire che alcuni luoghi sono più ricchi e densi di significato rispetto ad altri, non che ci sono dei luoghi privi di significato. Approfondiremo nel seguito questo punto essenziale.

ii Finora abbiamo parlato di «spazio», di «luoghi» e «territorio» senza considerarne alcuna particolarità semantica. In realtà questi termini indicano realtà diverse delle quali si dovrà necessariamente tener conto.

iii In uno spazio, si vedrà, che sarà bene definire come eminentemente sociale.

iv Anche se finora si è accennato alla sola azione del territorio sull’individuo, non si deve trascurare il fatto che, in ultima istanza, il territorio è una «creazione» dell’uomo.

v In realtà cercare di stabilire se venga prima l’intervento umano e poi una sorta di feedback, di lungo periodo, da parte del territorio (o viceversa), come potrebbe far pensare la scelta dei termini «azione» e «reazione» abbinati ai due poli della questione, è un’operazione priva di senso e fuorviante (del genere «viene prima l’uovo o la gallina?»). Si tenga presente quindi che la scelta e l’associazione dei due termini all’individuo o allo spazio è puramente convenzionale e dettata da esigenze espositive. L’assunzione dello schema è, inoltre, «tacita» perché l’argomentazione che segue non è strutturata esplicitamente su di esso, al contrario, le idee di azione e reazione affioreranno di volta in volta e saranno sempre presenti pur non dirigendo la discussione che verterà principalmente sulla forte valenza simbolica dei luoghi.

vi Il termine «evoluzione», molto caro all’antropologia a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, è estremamente ambiguo e risente più di connotazioni ideologiche che di obiettivi riscontri concreti e scientificamente orientati. Si userà questo termine, perciò, il meno possibile e con il solo intento di descrivere fenomeni che si seguono nel tempo senza alcuna connotazione in negativo o in positivo di ciò che viene prima o dopo.

vii Geertz C., Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987, p. 134.

viii Ibid. p. 51.

ix «… il cervello umano è completamente dipendente dalle risorse culturali per il suo funzionamento stesso; e queste risorse sono di conseguenza non aggiuntive ma costitutive dell’attività mentale», ibid. p. 126.

x Remotti F., Luoghi e corpi. Antropologia dello spazio del tempo e del potere, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp. 44-45.

xi Remotti F., Contro l’identità, Laterza, Bari 1997, p. 15.

xii A. Destro considera al riguardo che «il soggetto suddivide materialmente e mentalmente lo spazio in porzioni e le correla tra loro. Attraverso operazioni concettuali e interventi materiali, ogni individuo o gruppo attribuisce valore a, e ottiene qualificazioni da, un numero elevato di luoghi. Li istituisce come punti di esplicitazione di sé (del sé singolare o plurale), come mezzi di orientamento o di rinnovamento», Destro A., Antropologia dello spazio. Luoghi e riti dei vivi e dei morti, Pàtron Editore, Bologna 2002, p. 7 (corsivo mio). Studiare lo spazio dal punto di vista antropologico significa quindi «osservare il soggetto umano mentre opera – entro uno spazio definito – una condensazione di concetti e propositi che gli permettono di pensare ciò che è, ma anche ciò che dovrebbe essere o diventare in futuro», ibid. p. 8.

xiii «Decidendo cosa debba o possa scomparire / rimanere / riemergere, le società decidono di se stesse, del loro essere, della loro specificità. Ma per decidere della loro identità e specificità esse non possono fare a meno di selezionare “ciò che scompare”, “ciò che rimane”, “ciò che riemerge”. La selezione è un’operazione di grande e decisiva importanza sul piano culturale […]», Remotti F., Luoghi e corpi, p. 82.

xiv Turri E., Il paesaggio degli uomini. La natura, la cultura, la storia, Zanichelli, Bologna 2004, p. 31.

xv Ibid. p. 6.

xvi Turri E., Antropologia del paesaggio, Edizioni di Comunità, Milano 1974, p. 80.

xvii O meglio, raramente un oggetto acquisisce significato da un solo evento storico produttore di una limitata e perlopiù univoca gamma di simboli.

xviii Assimilando i valori incarnati da un dato oggetto culturale, l’individuo assimila anche nozioni relative al bene o al male. Egli saprà praticare ciò che, in base ai significati acquisiti, è associato al bene ed evitare elementi, luoghi nel nostro caso, legati all’idea di male o peccato (nel caso sia cattolico). La simbolicità dei luoghi collega orizzontalmente tra di loro gli elementi del mondo ma ha anche una dimensione verticale, di rappresentazione del rapporto e collegamento del mondo umano e sociale con la o le divinità.

xix Destro, op. cit. p. 8.

xx «In un paesaggio “ogni oggetto è lo specchio di tutti gli altri”», Turri, Antropologia del paesaggio, p. 85.

xxi «Ciascun segno vive in rapporto e in associazione con altri segni: il paesaggio è coerenza», ibid. , p. 138.

xxii La città di Bologna ben ricorderà la serie di aspre critiche cui andò incontro la giunta comunale che volle le famose «gocce», l’esposizione di Bologna (eBo), il cui ingresso era costituito da due grandi costruzioni in plexiglas situate in Piazza re Enzo. Ebbene, in quell’occasione molti cittadini videro un conflitto simbolico, un accostamento indesiderato e sconsiderato, perché incoerente, di «simboli del nuovo» con «simboli del vecchio» (ovviamente tralascio di considerare, perché incongrue, le decise implicazioni politiche che in parte animarono il dibattito).

xxiii Di intrusione, data la connotazione negativa del termine, si può parlare solo se si adotta il punto di vista dell’attore e non in termini assoluti (ovviamente).

xxiv Ritenuta distante ma in realtà più vicina alla nostra di quanto non si pensi.

xxv «Se gli immigrati allarmano tanto (spesso assai astrattamente) gli «indigeni», è forse innanzitutto perché essi dimostrano la relatività delle certezze iscritte nel suolo», Augé M., Non luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 1993, p. 109.

xxvi Turner V., La foresta dei simboli, Morcelliana, Brescia 1976, p. 53.

xxvii Ibid. p. 55.

 

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