III. Percezione della rilevanza simbolica dei luoghi. I risultati di un’indagine

Di Francesco Calzolaio

Una fase importantissima e imprescindibile della ricerca antropologica consiste nella raccolta dei dati «sul campo», nell’incontro diretto con l’oggetto da indagare (individui, gruppi, rituali, prodotti culturali di qualsiasi tipo) finalizzato ad afferrarne o, più spesso, intravederne la razionalità, la ragion d’essere o il significato assunto all’interno di un dato sistema culturale. È questo il momento etnografico, dell’annotazione dei significati culturali di interesse per l’analisi; ad esso segue l’analisi del materiale raccolto alla luce delle ipotesi di partenza e delle conoscenze teoriche pregresse, momento finale di ogni ricerca in cui l’antropologo sottopone ad una critica sistematica i modelli teorici scelti, sulla base, e qui risiedono la sua correttezza e onestà intellettuale, dei dati empirici raccolti sul campo.

Gli elementi di cui disponiamo per la nostra ricerca sono, a questo punto, di tre tipi: abbiamo un modello teorico, discusso nel primo capitolo, sulla base del quale possiamo assumere astrattamente l’esistenza di una organizzazione semantica dello spazio come elemento caratteristico e funzionale del comune modo di intendere, conoscere e costruire la realtà collettiva e l’identità individuale (e collettiva); secondariamente, disponiamo di informazioni storiche, brevi sintesi degli eventi che, sedimentandosi nel tempo, hanno contribuito alla formazione dell’identità di specifiche porzioni di spazio, i sette luoghi della città di Bologna scelti per l’analisi; in ultimo, disponiamo di vivo materiale etnografico: una serie di interviste, dieci per ogni luogo, magistralmente raccolte dagli studenti dell’Istituto superiore A.B. Sabin di Bologna.

Il nostro obiettivo a questo punto è la verifica della validità e del concreto funzionamento del modello teorico, la sua eventuale correzione o al limite anche la sua smentita; nello specifico, si tratterà di stabilire le relazioni (positive o negative) plausibili intercorrenti tra l’identità storica dei luoghi ed il materiale etnografico raccolto (rivelatore del contributo simbolico che ogni luogo ha esercitato sugli individui intervistati) sulla base di un modello teorico che fornisce lo schema e la struttura di tale ipotetico rapporto.

Come procedere? Sebbene si tratti di una esplorazione più che di una ricerca estesa e intensiva, le interviste mostrano fin da una prima lettura grande ricchezza di contenuti. Procederemo quindi intanto con il commento di ogni «blocco» di interviste sottoponendole ad un’analisi qualitativai, per così dire, individuale; in un secondo tempo, nelle conclusioni, si cercherà di trarre le conclusioni generali dell’intero lavoro.

1. Luoghi di Bologna, simboli e selezione culturale

a.   Le interviste raccolte in via del Pratello sono state tra le più abbondanti e ricche di elementi rilevanti per i nostri fini e già questo dato conferma il deciso impatto simbolico di questo luogo su chi vi abita o anche semplicemente si trova a frequentarlo con una certa assiduità.

Concentriamo l’attenzione su due elementi particolarmente importanti ed evidenti emersi dalle interviste: l’idea di via del Pratello come «paese» all’interno del più ampio contesto urbano e la conseguente percezione dell’esistenza di «regole» che animano e guidano il comportamento dei residenti.

Quattro intervistati su dieci hanno espressamente definito via del Pratello come «un paese all’interno della città di Bologna»ii. Questo dato conferma sostanzialmente la rilevanza simbolica del luogo e la prontezza con cui si manifesta e struttura nelle percezioni individuali; il fatto che tre individui su dieci utilizzino la stessa identica terminologia è un indicatore decisamente affidabile del concorso di questa via alla formazione delle identità.

Una conferma viene dal secondo elemento: un paese, un «quartiere a sé» necessita e vive di regole proprie; in altri termini, i comportamenti dei soggetti sono in un certo senso disciplinati dal luogo e dalla storia delle relazioni che vi si trovano iscritte. La presenza di regole imposte dal luogo è notata espressamente da un uomo di 61 anni secondo il quale:

Via del Pratello è sempre stata una zona storica di Bologna. Io sono nato qui, i miei genitori son nati qui e anche i miei nonni ed è diventata così particolare come zona perché fino a quarant’anni fa c’erano delle regole da rispettare che erano diverse da quelle del resto della città e la gente che veniva da fuori ha imparato a conoscere queste leggi, chiamiamole così, e hanno capito che via del Pratello era diversa dalle altre.

[…] Come lo dicevo prima, qui c’erano delle regole da rispettare, non si rubava agli operai ad esempio, rubavano ai ricchi per dare ai poveri […]. Qui c’era solidarietà e nessuno chiudeva a chiave la porta di casa. Ora però queste tradizioni sono un po’ perseiii.

La presenza consapevole di regole influisce, e le nostre interviste lo mostrano abbastanza bene, anche sulla percezione del rischio e del pericolo sociale. A fronte di una generalizzata bassa percezione del rischio tra gli intervistati in via del Pratelloiv, vediamo che a dichiararsi «più sicuri» sono i due intervistati più «anziani», di 45 e 61 anni, che presumibilmente cioè hanno avuto modo di interiorizzare meglio e a pieno la normatività del luogov. Per gli altri due casi, due donne di 27 e 38 anni, la percezione del rischio sale fino a prospettare l’ombra del Pratello come «zona franca»vi, cioè assolutamente priva di regole.

Circa la perdita, completa o progressiva, del codice comportamentale implicito nel luogo, i giudizi sono quasi unanimi nell’attribuirne le cause ad elementi esterni, soprattutto studenti e immigrati, portatori di codici differenti che sembrano sovrapporsi a quello già esistente. L’esempio più interessante è dato dall’intervista numero 8, nella quale una donna di 27 anni individua la causa del degrado in un intervento del Comune di Bologna, dimostrando nel migliore dei modi l’esistenza percepita di un conflitto tra norme implicite del luogo e norme esplicite provenienti e «imposte» da un entità esterna al «sistema Pratello» come il Comunevii.

b.   Le interviste raccolte nei pressi della basilica di San Francesco e delle tombe dei glossatori rivelano, come era facile immaginarsi, una realtà del tutto differente. Solo tre intervistati su dieci hanno detto, o dato ad intendere, di non conoscere affatto l’identità del luogo; i restanti sette hanno dimostrato una sua seppur basilare conoscenzaviii. Nella maggioranza dei casi si tratta di una conoscenza elementare e stereotipata, comunemente acquisita nel tempo perché facente parte di una sorta di «pacchetto culturale» al quale tutti i residenti, assidui frequentatori e Bolognesi hanno accesso per il solo fatto di appartenere allo stesso sistema culturale. Non mancano però delle eccezioni, alcuni intervistati, due per la precisione, hanno approfondito il discorso raccontando alcuni aneddoti storici, più o meno fedeli alla realtà dei fatti, riguardanti la storia dell’università o i viaggi di San Francescoix.

La vicinanza con via del Pratello sembra influire sulla percezione del luogo da parte della popolazione giovanile non originaria di Bologna. È interessante notare come una studentessa di 23 anni parli della chiesa, e del sagrato soprattutto, come di un luogo di ritrovo e di socializzazione. Non conoscendo il significato del luogo specifico, sono le proprietà del luogo ai suoi occhi più rappresentativo, e vicino, a guidare l’orientamento. Ne leggiamo alcuni passi:

Mah, so che è la chiesa di San  Francesco, ma non saprei dire molto di più… più che altro mi sembra conosciuta perché sul sagrato si trovano gli studenti a chiacchierare, per stare un po’ insieme… Ogni tanto ci sono andata anche io, questa è una zona in cui si passa spesso a bere qualcosa, siamo vicini a via del Pratello.

Devo dire che non so cosa siano (si riferisce alle tombe dei glossatori)… e pensare che abito qui vicino e ci passo tutti i giorni. Mi sono chiesta spesso cosa fossero. Direi che sono delle tombe, evidentemente delle tombe di religiosi […].

(È) una zona molto importante, soprattutto perché è una fra le ultime zone in cui si respira un’atmosfera… di vicinanza, di prossimità… anche se adesso la situazione è cambiata perché la sera non si possono più consumare bevande in strada […]. Da quando sono venuta ad abitare qui a Bologna ho sempre vissuto in questa zona, è così calda, accogliente […].

Possiamo avanzare in questo caso l’ipotesi di una contaminazione dello spazio simbolico da parte di significati prossimi nello spazio ma non affini nel significato (tra fede e tempo libero c’è davvero poco in comune). Al diminuire della vivacità comunicativa di un luogo (fenomeno non oggettivo e universale ma eminentemente soggettivo e relativo ai vari fruitori del luogo) vengono attivati meccanismi di compensazione che ne permettano comunque la riconoscibilità, anche a prezzo del cambiamento parziale e tendenziale, del suo significato immediato. Una chiesa rimane pur sempre una chiesa, cambiano però la forza con la quale si impone ai fruitori del luogo e la sua capacità di primeggiare e «dominare», simbolicamente, i luoghi che la circondano e il paesaggio circostante. Se un tempo la zona sarebbe stata riconoscibile riferendosi alla basilica di San Francesco, adesso, in alcuni casi, è la basilica che può essere identificata in base alla sua prossimità con via del Pratello.

c.   Un discorso simile a quello appena fatto per la basilica di San Francesco può aiutare a interpretare alcune delle interviste raccolte in via de’ Gombruti, nei pressi della sinagoga di Bologna.

Innanzitutto, c’è da dire che il luogo è stato riconosciuto, più o meno direttamente, da nove intervistati su dieci, solo una donna, non residente di 56 anni, ha dichiarato di non avere idea di cosa fosse l’edificio in cui ha sede la sinagoga, per il resto è stata riscontrata una conoscenza, seppure elementare, del luogo e della religione ebraica.

Evidenziamo un elemento che sembra emergere dalle interviste e che trascende la percezione del luogo specifico della sinagoga per chiamare in causa il modo di intendere i luoghi di culto in generale. In tre interviste i soggetti definiscono i luoghi di culto non in base a ragioni di fede o comunque religiose ma, al contrario, di cultura ed arte. In una di esse, la rilevanza artistica dei luoghi di culto viene riservata alle sole chiese cristiane e serve a distinguere tra un «noi» cattolico che fruisce culturalmente i luoghi di culto e un «loro» (gli ebrei nel nostro caso e i musulmani) che invece predilige l’aspetto cultuale. Leggiamo alcuni passi:

Sicuramente le sinagoghe sono quasi esclusivamente luoghi di culto e quasi esclusivamente frequentate da persone di fede ebraica; le chiese cristiane, quantomeno in Italia, sono essenzialmente dei luoghi d’arte e vengono forse più frequentate dai visitatori che dai fedeli o comunque in misura paritaria; le moschee sono ancora, per quanto riguarda l’Occidente, un luogo alquanto religiosox.

I luoghi di culto sono dei luoghi solo per i credenti. Non hanno più molto significato, se non dal punto di vista artistico, come le nostre chiese non hanno molto più significato per le altre personexi.

Al giorno d’oggi, secondo me, la religione è un fatto sociale molto poco rappresentativo di un popolo, è più un fenomeno di livello storico o di indicazione culturalexii.

Queste risposte ci permettono di vedere il fenomeno che abbiamo precedentemente incontrato, della contaminazione simbolica dei luoghi della religione cattolica, da un’altra prospettiva, interna rispetto alla precedente. Se, infatti, la (relativa) perdita di vivacità dei luoghi di culto consente l’espansione e quasi la sovrapposizione di simboli esterni (abbiamo visto quelli appartenenti al dominio semantico del Pratello), dall’interno di questi stessi luoghi osserviamo uno spostamento del contenuto significativo dalla fede all’estetica, alla rilevanza artistica e alla fruizione di tipo prettamente culturale. Certamente non è corretto generalizzare: il sistema culturale del fedele trascende l’aspetto puramente artistico del luogo; il credente si reca in chiesa come nel luogo deputato ad incontrare il proprio dio, sia esso una splendida basilica gotica o una umile chiesa come tante altre. Tuttavia notiamo questo duplice movimento: contaminazione dall’esternoxiii e slittamento del significato percepito verso l’aspetto artistico-culturale.

Un secondo elemento interessante emerso dalle interviste è relativo alle modalità con cui viene percepita la sinagoga. Per cinque intervistati su dieci la sinagoga è la «chiesa degli ebrei»xiv. Che conclusioni trarre da questo dato così ricorrente?

Da un lato, possiamo vederlo chiaramente, la chiesa funge da modello interpretativo alla luce del quale riusciamo ad inquadrare una realtà evidentemente sfuggente come può essere la sinagoga. Gli intervistati hanno ben presente quale sia il significato e la funzione della chiesa per il cristiano, così utilizzano lo stesso schema per definire un altro luogo di culto che presumibilmente, in quanto tale, dovrà assolvere alle stesse funzioni. D’altro canto, il fatto che questa definizione sia così ricorrente può indicare una consapevolezza, negli intervistati, della vicinanza storica e dell’«affinità genetica» tra cristianesimo ed ebraismo. Si è accennato nel secondo capitolo alla stretta relazione tra le due religioni; le risposte date possono essere viste come riscontri impliciti della conoscenza di questa realtà.

I rapporti tra cristianesimo ed ebraismo sono comunque troppo complessi per trarre conclusioni di qualsiasi tipo dalle interviste a nostra disposizione, ne rimandiamo quindi, con buona ragione, la trattazione a lavori futuri.

d.   I dati relativi a Porta Lame sono abbastanza positivi ed esemplari sotto alcuni aspetti. Su dieci intervistati solo un uomo, lavoratore in zona, ha detto di non sapere nulla circa la storia della Porta. Tutti gli altri, in misura variabile, si sono dimostrati partecipi e consapevoli degli avvenimenti del ’44 ricordati dalle due statue.

Un dato interessante è il riconoscimento chiaro ed esplicito della grande valenza simbolica della Porta. Lo testimoniano quattro interviste che riportiamo in sintesi:

Non ci furono molte vittime, la battaglia ha un significato più che latro simbolico perché era la prima volta in città che si affrontavano a viso aperto formazioni partigiane, in quel caso erano gappisti, e truppe tedeschexv.

I partigiani liberarono Bologna e si opposero al dominio nazista quindi Porta Lame fa parte di questa storia. […] Riconosco che Porta Lame è un simbolo della nostra città, qualcosa che aiuta a comprendere la storia, a capire cosa è accaduto, che fa rifletterexvi.

So che è stata una battaglia abbastanza dura qui a Porta Lame. È simbolica soprattutto per la guerra di liberazione, della Resistenza…xvii

Penso che Porta Lame sia un simbolismo che viene da lontano, che per molte presone viene tuttora riproposta sia a livello di manifestazione, sia a livello culturale. […] Porta Lame per me è un punto di riferimento per un sacco di motivi, sia dal punto di vista storico che socialexviii.

È ora chiaro perché si sono definiti esemplari i dati raccolti intorno a Porta Lame: il 40 % degli intervistati ha dichiarato di vedere nella Porta e nelle sue statue i simboli di un’epoca. Dato ancora più interessante è la composizione equilibrata del campione: dei quattro intervistati due sono trentenni e due invece anziani, a dimostrazione del fatto che l’importanza simbolica del luogo non è percepita solo da chi può, anagraficamente, aver preso parte agli eventi o esserne stato coinvolto indirettamente.

L’ultima frase dell’intervista numero 9, evidenziata in corsivo, sintetizza inoltre al meglio quanto detto nel primo capitolo: la Porta è un punto di riferimento storico e culturale per chi, ovviamente non per tutti, si trovi a frequentarla. Agire il luogo orienta l’agire sociale del ragazzo di 31 anni cha lavora nei paraggi e conosce, per propria iniziativa, la storia del luogo. Possiamo intravedere anche cosa abbia stimolato l’intervistato; in una risposta data ad un’altra domanda afferma:

– Cosa significa per lei Porta Lame?

– Il tentativo di liberare autonomamente la città senza dover aspettare il passaggio dell’inverno e l’arrivo degli alleati indica un modo di trovare autonomamente la via della liberazione, senza aspettare l’aiuto da fuori.

In definitiva Porta Lame si è presentata come uno fra i luoghi più vivaci e ricchi di significato tra quelli indagati, dato confermato anche dal fatto che cinque intervistati hanno affermato di partecipare alle commemorazioni annuali della battaglia.

e.   Una vivacità simile a quella riscontrata per Porta Lame sembra animare anche il ricordo della strage della stazione ferroviaria di Bologna. Le interviste confermano infatti una conoscenza generalizzata e più o meno stilizzata degli avvenimenti; non mancano inoltre riferimenti al più ampio contesto storico-culturale del periodo.

Si segnala, però, una certa carenza comunicativa dei simboli della strage: la crepa sul muro e, soprattutto, l’orologio che non è stato mai notato prima dell’intervista dal 40 % degli intervistatixix.Il dato si spiega intanto con il tipo di fruizione che caratterizza il luogo: la stazione è principalmente un luogo di transito e di «rapido consumo», è quindi abbastanza difficile che sia conosciuta nei particolari. Inoltre, proprio il fatto che tutti gli intervistati abbiano dichiarato di essere a conoscenza della strage e alcuni ne abbiano anche, con un po’ di confusione, raccontato la storia, indica che l’impatto della strage è stato talmente forte da imprimersi nella memoria di un popolo intero indipendentemente da simboli specifici di qualsiasi tipo. La lettura di alcuni passi delle interviste lo dimostra:

Bologna è un luogo della memoria condivisa perché è entrata a far parte del patrimonio collettivo. Nella storia del paese non ci sono più lacerazioni così clamorose, così evidenti…xx

È stato un evento devastante che ha toccato l’Italia sotto diversi aspetti, soprattutto politicixxi.

Per me la strage di Bologna rappresenta una memoria da ricordare soprattutto per far riflettere le persone ed evitare che succeda ancoraxxii.

L’intera stazione, dunque, è il simbolo dell’accaduto e chi vi si trovi di passaggio viene investito ancora oggi dal ricordo dell’evento funestoxxiii.

f.    Le interviste rilasciate in via Mascarella, vicino al muro dove fu freddato Francesco Lorusso ci restituiscono una serie di dati di non facile lettura. Tutti gli interpellati hanno risposto di essere a conoscenza dell’accaduto: alcuni non hanno ricordato il nome del ragazzo, ma soprattutto, quasi tutti hanno detto o dato ad intendere di non conoscere, se non in modo estremamente superficiale, il contesto storico nazionale e bolognese in cui si consumò il fatto. In altri termini, sembrerebbe che si sappia dell’omicidio dello studente e dell’appartenenza del suo uccisore alle forze dell’ordine ma non se ne conoscano, o non se ne vogliano conoscere, le cause. Ben sette intervistati lo lasciano intendere:

[…] quei fori sul muro risalgono ai fatti accaduti nel ’77, quando i carabinieri spararono a un ragazzo di nome Francesco Lorusso durante una manifestazione studentesca. […] So solo che ci furono molte manifestazioni studentesche in quell’anno e, in una di queste, morì quel ragazzo. […] Penso sia giusto che abbiano fatto questo omaggio, la lapide infatti è posta esattamente dove lui cadde dopo aver ricevuto degli spari sulla schiena. Lo so perché conosco il padre e ho parlato con luixxiv.

Mi pare che quei fori sul muro ci sono perché nel ’77 c’è stato l’omicidio di un ragazzo che penso abbia fatto parte del movimento studentesco… ma la lapide non l’avevo mai vista. […] Non conosco le vicende nei particolari ma so che nel ’77 a Bologna si è vissuto un particolare momento che ha conosciuto anche estremismi e violenze, compresi scontri armati tra studenti e forze dell’ordinexxv.

Quei buchi? Risalgono ai giorni della protesta studentesca in cui fu ucciso Francesco Lorusso e stanno lì a rappresentare i proiettili che lo colpirono. […] Non saprei dirle altro, so che quel ragazzo era uno studente come tanti che manifestava, non uno in particolarexxvi.

Sì, hanno ucciso Lorusso, ma mi ricordo molto poco perché all’epoca ero ancora una bambinaxxvii.

Certo, la morte di Lorusso… Era uno studente che partecipava a una manifestazione e purtroppo gli hanno sparato e quella lapide è lì per lui. […] Mi ricordo solo che dopo quell’evento sono accaduti una serie di disastri; la strage di Ustica, il treno… Tutto, è successo di tuttoxxviii.

Quei fori nel muro dovrebbero riferirsi a quando nel ’68 ci su la sparatoria a quello studente, Lorusso… morì… la lapide lo indicaxxix.

Abito qui da un anno e mezzo più o meno… Ho solo letto che qui è morto Lorusso, ho letto il nome e il resto sulla lapide. […] (alla richiesta di spiegazioni sul ’77 risponde) Ne ho sentito parlare, ecco tutto, credo di avere visto anche un film su quegli avvenimenti, ma per il resto so soltanto che era un periodo di contestazioni studenteschexxx.

Dunque la memoria dell’evento è ancora viva e avvertita dagli intervistati, il luogo conserva una decisa valenza comunicativa (data anche la violenza di ciò che si offre alla vista dei passanti), nuovi simboli aiutano a mantenere caldo il ricordo (pensiamo al padre di Lorusso, citato nell’intervista numero 2), ma il tutto è come avvolto da una nebbia che ne nasconde il significato. Potremmo spiegare la scarsa contestualizzazione dell’accaduto in vari modi, il numero di interviste però mal si presta a conclusioni affrettate e sarebbe necessario un approfondimento dell’argomento. Si può dire intanto che, in alcune interviste, poche a dire la verità, sembra affiorare una sorta di rimozione del periodo storico intero dalla memoria collettiva. Quali ne siano le cause è cosa difficile a dirsi: gli anni Settanta sono forse ancora troppo vicini a noi per essere «storicizzati»; gli avvenimenti di quegli anni sono effettivamente ancora oscuri; la militarizzazione della zona universitaria può essere stata avvertita come un evento troppo violento per essere ricordato e altro ancora.

Con i dati a disposizione non si viene a capo di una questione tanto complessa; un aiuto può forse rinvenirsi in una frase, un passo delle interviste in cui una donna di 38 anni spiega cosa ricorda del periodo:

Di quegli anni mi ricordo solo la paura degli adulti… Io poi abitavo fuori Bologna e ho saputo dell’evento solo qualche tempo dopoxxxi.

Un periodo di per sé oscuro, in cui la gente ha assistito a scene fra le più assurde e paradossali come via Zamboni assediata dai carri armati, certo non aiuta a ricordare altro che la paura.

g.   Le interviste raccolte nell’area del Bestial Market e dei giardini «Francesco Lorusso» rivelano una certa polisemicità di un luogo che viene sì riconosciuto dalla totalità degli intervistati, ma per ragioni differenti. Tutti gli interpellati dichiarano di conoscere la precedente destinazione del luogo a mercato del bestiame, praticamente tutti conoscono la vicenda di Lorusso (in modo ancora più frammentario rispetto agli intervistati in via Mascarella), cinque su dieci dichiarano di frequentare il luogo in relazione ai servizi che offre: le manifestazioni di intrattenimento culturale (la manifestazione «Està Porto» è espressamente indicata in una intervista), la biblioteca e il centro anziani.

Nel caso specifico, il richiamo ad una varietà di simboli (il mercato del bestiame, l’omicidio Lorusso, il centro anziani e l’attuale offerta culturale) può indicare un fase di transizione del luogo verso un’identità più decisa e univoca. Nella situazione attuale è più che altro la classe di età degli intervistati a determinare il riconoscimento dei simboli, nessuno dei quali si pone quindi come «dominante» rispetto agli altri.

Rileviamo ancora una volta la scarsa conoscenza del contesto storico in cui si consumò l’omicidio Lorusso, ancora più frammentaria di quella notata in via Mascarella. Il 70 % degli intervistati, dietro sollecitazione degli intervistatori, accenna a mala pena alla realtà del ’77 bolognese. L’impressione generale, al riguardo, è di una limitata rilevanza simbolica del luogo rispetto all’accaduto, motivo per cui la semplice fruizione del luogo è insufficiente a formare una coscienza dei fatti degli anni Settanta. Ciò peraltro non deve stupire, sono assenti infatti i segni della violenza (come i fori dei proiettili sul muro in via Mascarella) e l’evento stesso si è consumato ad una certa distanza. Possiamo forse parlare di una adesione emotiva al ricordo della morte di un ragazzo non supportata dalla conoscenza «razionale» degli eventi. Leggiamo alcuni passi delle interviste:

Della storia del parco non so dire gran che… so a chi è intitolato, so alcune storie… a Lorusso… e tutto quel poco che so, comunque, me lo raccontò mia madre […]. Mi raccontò tutti gli scioperi, tutti i problemi, le manifestazioni, i problemi anche in ospedale, che non c’era personalexxxii.

So che questo parco è intitolato ad un ragazzo che morì negli anni Settanta […]. Quegli anni furono per Bologna abbastanza intensi. Francesco Lorusso era uno studente che viveva a Bologna, so solo questo, non so in che ambito… ho sentito alcune cose… so che da lì nacque tutta una serie di problemi, di rivolte…xxxiii

Francesco Lorusso durante la rivolta studentesca del ’77 è stato ucciso dalla polizia. Mi sa in via Mascarella… Non ho mai fatto caso a quella pietra, sinceramentexxxiv.

Non so a chi è dedicato lo spazio verde […]. Sì, Lorusso… era uno del partito comunista. Fecero delle manifestazioni che lo uccisero, fu ucciso insomma, non lo so il perché… Non ho mai visto la pietra dedicata a Lo russoxxxv.

Io ho abitato spesso qui, c’era il mercato delle bestie, fino agli anni ’50, poi è rimasto abbandonato […]. Non ricordo a chi è dedicato questo parco, l’ho letto ma non mi ricordo. […] Sì, Francesco Lorusso era un partigiano, sono contento che gli hanno dedicato il parco. Uno che è stato ucciso, penso dai fascisti…xxxvi

Se dovessi raccontare di questo posto non saprei dirle più di tanto… […] Ho lavorato nel ’77 a Bologna e so che è uno studente ed è stato ucciso ad una manifestazione, poi non entro in politica perché il fatto non lo ricordo…xxxvii

(Francesco Lorusso) ha avuto la disgrazia che l’hanno ammazzato in una manifestazione… La poesia su quel muretto è dedicata a lui, so che era un ragazzo… Ci sono di quelle cose che proprio non so… Dopo la sua morte ci sono stati dieci anni di piombo… Sono contento del riconoscimento che è stato fatto a questo ragazzoxxxviii.

Le interviste dunque ci restituiscono un’immagine del luogo come di una realtà, dal punto di vista simbolico, ancora in via di costruzione in cui nessun segno sembra dominare sugli altri. Allo stato attuale, l’intera area è utilizzata per una serie di caratteristiche e di offerte (semantiche) differenti, prevale il dato prettamente anagrafico nella definizione del tipo di fruizione ed il contributo del luogo, ai fini della formazione delle identità individuali, non sembra essere (ancora) determinante.

2. Conclusioni

Concludiamo questo breve lavoro con una riflessione finale su due questioni di carattere generale che sembrano emergere dalle interviste.

Ci possiamo in primo luogo chiedere che tipo di conoscenza del territorio traspaia dalle risposte date ai nostri giovani etnografi. Lo si è detto in modo frammentario parlando dei vari «blocchi» di interviste: i vari luoghi sono quasi sempre stati riconosciuti per quello che sono, la carenza, se di carenza si può parlare, riguarda però la ricostruzione del contesto storico relativo. Nozioni schematiche, stereotipi e altri accomodamenti della memoria aiutano gli individui intervistati a collocare i luoghi prescelti in un qualche spazio della storia e della memoria; è quasi del tutto assente il senso dell’evoluzione e del divenire storico, cosa che non ci deve stupire più di tanto date le modalità con le quali, nella norma, oggi acquisiamo informazioni circa gli eventi. Eventi frammentari, immediati e in sé conclusi per una società di «facile consumo» che non può, in quanto tale, tollerare né generare conoscenze diffuse e completexxxix, né tanto meno riconoscere l’incompletezza e il «farsi ancora» di un evento storico come atteggiamento di onestà metodologica e intellettuale.

Notiamo la presenza di «pacchetti» di conoscenze comuni che gli individui poi elaborano in base alle proprie scale di valori e orientamenti esistenzialixl. Verrebbe provocatoriamente da pensare, e sarebbe molto istruttivo, alle risposte che avrebbero potuto rilasciare i fruitori di un centro commerciale circa la sua «storia». Potrebbe essere un interessante termine di paragone alla luce del quale poi ritornare sulle nostre interviste e considerare le differenze e le affinità circa la forza comunicativa di questi luoghi così diversi.

Agire un luogo, lo possiamo adesso dire con nozione di causa, implica una selezione dei suoi significati in base a direttive culturali molto più generali che lo trascendono. Il fatto che la giovane studentessa di 23 anni, pur abitando vicino alla basilica di San Francesco e pur passandovi ogni giorno, non sappia di chi siano le tombe monumentali non deve stupire né lasciarci indignati o peggio indurci a criticare, al solito, «i giovani d’oggi». Al contrario, si deve piuttosto riflettere sul fatto che noi viviamo quotidianamente il divenire storico di questi luoghi e che, in definitiva, siamo il loro divenire. Ma il «come» di questo vivere i luoghi (ed esserne il divenire) dipende in linea di massima da logiche culturali che superano l’individuo e la sua particolarità. Si può dire che dove va la cultura di una società vada anche la sua memoria e il significato dei suoi luoghi.

Concludiamo evidenziando come la conoscenza degli eventi più recenti della storia di questa città, pensiamo alla strage della stazione e all’omicidio Lorusso, sia evidentemente inferiore rispetto a quella relativa ad eventi a noi più lontani, come potrebbe essere la battaglia di Porta Lame. Chiariamo e attenuiamo i termini della questione: più che inferiore potremmo forse dire differente. Sembra trattarsi infatti di una differenza qualitativa, di una conoscenza più «razionale» rispetto agli eventi lontani ed «emotiva» per quelli recenti. Tutti gli intervistati conoscono l’evento della strage del 2 agosto 1980 e tutti ricordano che nel 1977 a Bologna un ragazzo è caduto sotto i colpi delle forze dell’ordine, ma, soprattutto nel secondo caso, ciò che conserva il ricordo è la sua valenza emotiva, l’adesione ad un sentimento di generalizzato rispetto per la vita, cosa non da poco ma che esiste al di là dell’omicidio o della strage in sé. La prevalenza della conoscenza emotiva di un evento è cosa tanto più normale quanto più l’evento è prossimo, tuttavia non possiamo non notare l’aleatorietà e caducità di questo tipo di ricordo, il suo essere in balia del tempo e degli (altri) eventi.

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– Vinelli A. – Raffaelli Filippo – Raffaelli Fabio (a cura di), Le strade di Bologna, Newton, Roma 1989.

– Vincenzi S., Il Pratello. Bologna, storia e rinascita di una strada, Grafis Edizioni, Bologna 1993.

i I dati rilevabili nelle ricerche sociologiche o antropologiche sono in linea di massima analizzabili in due modi differenti. Del dato empirico si può infatti cogliere la «quantità» come nel caso delle analisi statistiche oppure la «qualità», quando si sceglie di assumere uno sguardo introspettivo e si cerca di delinearne il significato intimo e profondo. Quale approccio scegliere dipende dal tipo di materiale empirico a disposizione e dagli obiettivi della ricerca; normalmente un’analisi quantitativa si può condurre su grandi moli di dati da interrogare con strumenti informatici mentre l’analisi qualitativa è utile nel caso il materiale sia quantitativamente scarso. I due approcci possono anche essere usati in modo congiunto, così che i dati rilevati si supportino reciprocamente. Per quanto ci riguarda, nell’analisi prevarrà nettamente il dato qualitativo in coerenza con gli obiettivi definiti dell’indagine e con il numero di interviste effettuate.

ii Intervista n. 2 (uomo, 61 anni, residente in via del Pratello). Intervista n. 1 (donna, 45 anni, residente): «il Pratello è rimasto come un piccolo villaggio». Nell’intervista n. 8 (donna ventisettenne commerciante) leggiamo «via del Pratello è il mio paese», mentre nell’intervista n. 10, una donna residente di 38 anni afferma che «ci abito solo da 5 anni, ho sempre visto il Pratello come un’espressione di un paese nella città, un quartiere a sé dove tutti si conoscono e che ha un’anima a prescindere dal contesto della città di Bologna».

iii L’uomo di 61 anni parla chiaramente di regole ma possiamo assumere un qualche riferimento alla presenza di un codice comportamentale inscritto e trasmesso dal luogo anche dalle interviste nelle quali il Pratello viene indicato come «paese», come sistema cioè di relazioni organizzate e disciplinate. La «norma» non deve avere necessariamente a che fare con la repressione delle libertà individuali, possono esserci e necessariamente ci sono serie di regole alle quali l’individuo si affida senza perciò patirne in termini di frustrazione della propria volontà. Anche la cultura più libertaria che possiamo immaginare si baserebbe su precise regole di comportamento.

iv Praticamente nessun intervistato definisce la via come «ad alto rischio», benché tutti abbiano considerato un peggioramento della situazione negli ultimi anni.

v Leggiamo le risposte date nelle interviste 1 e 2 alla domanda sulla percezione del rischio: int. n. 1: «il Pratello è una strada significativa perché ha alle spalle una storia come quartiere popolare del centro storico, quindi turbolento»; int. 2: «secondo me stanno esagerando… Qui non c’è quella delinquenza di cui parlano e che è presente magari in altre zone di Bologna».

vi Int. n. 8: «secondo me l’ha fatta (ogg.: via del Pratello) diventare ad alto rischio il Comune impedendo di far vivere la strada, facendo chiudere presto i locali, io adesso non esco più da sola al Pratello, mentre l’anno scorso lo facevo tranquillamente, è diventata una zona franca»; int. n. 10: «ho sentito anch’io che questa zona è considerata ad alto rischio e l’ho pensato anch’io, in realtà… Beh! Si vede…»

vii Il passo dell’intervista è citato alla nota 7.

viii Per conoscenza basilare intendiamo il mero riferimento al periodo storico, all’attività dei glossatori e al loro ruolo relativamente allo sviluppo dell’università nel mondo.

ix Int. n. 1 (uomo, 37 anni, lavora in zona): «(i glossatori) sono i primi commentatori del diritto… sono della scuola di Irnerio, sono considerati fondatori dell’università di Bologna… Lo studio del diritto, il codice giustinianeo nasce a Ravenna però in quel caso non possiamo parlare di università, siamo ancora nel tardo impero romano; viene appunto riscoperto a Bologna, da Bologna si passa a Parigi, da Parigi nascono altre università in giro per l’Europa […] Dopo di che gli studi si allargano in tutta l’Italia e si allargano anche come materia perché non si continua a studiare solo il diritto ma si studiano anche altre cose […]»; int. n. 2 (uomo, 43 anni, residente): «qui è passato San Francesco, due volte, di ritorno dall’Oriente e una di passaggio, qui ci fu la famosa… il famoso atto quando buttò i mattoni giù dal tetto perché non voleva che i frati avessero qualcosa… perché era noto che i francescani non dovessero avere assolutamente nulla di proprietà. Quando lui passò di qua e vide che si stava costruendo la prima chiesa, si arrabbiò molto, salì sul tetto e iniziò a scagliare giù i mattoni perché non voleva. Poi alla fine ci fu un compromesso e insomma… siamo arrivati a questo convento qua».

x Int. n. 1: uomo, 37 anni, non residente a Bologna.

xi Int. n. 5: donna, 43 anni, residente in zona.

xii Int. n. 10: donna, 24 anni, lavora in zona.

xiii È importante considerare che il termine «contaminazione» è qui usato in senso neutrale, fuori dunque da qualsiasi accezione negativa. Affermare che il simbolismo è contagioso non implica che ciò che viene dopo sia peggiore o migliore di ciò che sta prima, è solo una constatazione senza alcun giudizio di valore.

xiv Int. n. 5 (donna, 43 anni, residente): «all’interno del palazzo c’è la sinagoga. È la chiesa degli ebrei»; int. n. 6 (donna, 67 anni, residente): «Là c’è la sinagoga degli ebrei. È la chiesa del culto degli ebrei»; int. n. 7 (uomo, 17 anni, lavora in zona): «c’è il rabbino, la comunità ebraica. La sinagoga è la chiesa per gli ebrei»; int. n. 8 (donna, 66 anni, passante): «si, la sinagoga so che c’è…! È la chiesa degli ebrei»; int. n. 9 (uomo, 24 anni, residente): «la sinagoga è la sede, il luogo di culto dove gli ebrei svolgono le loro cerimonie. Come la nostra chiesa».

xv Int. n. 1 (uomo, 70 anni, residente in zona).

xvi Int. n. 2 (uomo, 33 anni, passante).

xvii Int. n. 8 (uomo, 81 anni, residente in zona).

xviii Int. n. 9 (uomo, 31 anni, lavora in zona).

xix Int. n. 1 (uomo, 61 anni, bolognese): «No, non ho avuto modo di notare l’orologio. Ah beh!… Sì … ricorda la data dell’esplosione… le lancette ferme è il segno dove è esplosa la bomba»; int. n. 2 (donna, 26 anni, di passaggio): «[…] sono venuta spesso a Bologna. La prima volta che sono arrivata mi è capitato di pensare alla strage: mi sono guardata intorno e non ho visto nulla che mi facesse pensare alla strage in sé, voglio dire… un punto di riferimento. E sinceramente rimango delusa dal fatto che lo sto notando adesso»; int. n. 7 (donna, 51 anni, lavora in zona): «Sinceramente sono sempre venuta qui di fretta e non ho mai notato la lapide, non mi sono presa ancora lo spazio e il tempo per farlo. Non ho notato la crepa sul binario… Lo so bene della strage, purtroppo mi ricordo tutto però queste cose non le ho notate»; int. n. 9 (uomo, 56 anni, di passaggio): «Non avevo mai notato le lancette dell’orologio, ma ora che mi ci fa pensare credo che segnino l’orario della strage di Bologna».

xx Int. n. 6 (donna, 50 anni, ha studiato a Bologna).

xxi Int. n. 9 (uomo, 56 anni, in attesa del treno).

xxii Int. n. 10 (uomo, 26 anni, lavora in stazione).

xxiii Circa l’intensità del ricordo possiamo leggere un passo tratto dall’intervista n. 5 (donna, 66 anni, residente): «Quando vengo qui mi ricordo tutto tutto tutto, mi ricordo la strage e mi commuovo perché io viaggio spesso. Sì, persone che conosco, che frequento vivono tragicamente quella storia, cose da brividi, solo al pensarci mi emoziono, sto male. Sono passati tanti anni ma sto male»

xxiv Int. n. 2 (uomo di origine cilena, 51 anni, lavora in zona).

xxv Int. n. 3 (donna, 23 anni, residente in zona).

xxvi Int. n. 4 (uomo, 29 anni, residente in zona).

xxvii Int.. n. 7 (donna, 38 anni, lavora in zona).

xxviii Int. n. 8 (donna, 64 anni, lavora in zona).

xxix Int. n. 9 (donna, 68 anni, passante).

xxx Int. n. 10 (donna, 22 anni, abita in zona).

xxxi Int. n. 7 (donna, 38 anni, lavora in zona).

xxxii Int. n. 1(uomo, 29 anni, residente in zona).

xxxiii Int. n. 2 (donna, 29 anni, studentessa).

xxxiv Int. n. 3 (uomo, 21 anni, studente domiciliato in zona).

xxxv Int. n. 5 (uomo, 82 anni, passante).

xxxvi Int. n. 7 (uomo, 90 anni, residente in zona).

xxxvii Int. n. 8 (uomo, 63 anni, passante).

xxxviii Int. n. 9 (uomo, 76 anni, passante).

xxxix Ma la conoscenza storica ha, già di per se stessa, ben poco di completo e definitivo.

xl È di un certo interesse il fatto che la stessa dotazione di conoscenze comuni possa dare esiti interpretativi completamente diversi. In una delle interviste raccolte in via Mascarella osserviamo come l’orientamento politico possa determinare variazioni considerevoli nell’interpretazione delle stesse, scarne, conoscenze. Ciò che sorprende non è l’influenza dell’orientamento politico sull’interpretazione dei fatti, cosa scontata, ma la sua rilevanza in relazione alla stessa quantità e qualità delle informazioni a disposizione. Leggiamo (int. n. 5: uomo, 63 anni, residente in via Mascarella): «quei fori sono delle pallottole, un po’ arrotondate, ingrandite… pallottole che i carabinieri hanno sparato ad altezza uomo uccidendo un ragazzo, Lorusso», il soggetto dimostra di conoscere il fatto in modo più o meno simile agli altri intervistati. Continuando, l’uomo però afferma: «rispetto a quella particolare vicenda le posso dire che quel ragazzo aveva in mano dei sassi, che a mio avviso non sono un giochino… […]. È stata costruita questa lapide per ricordare Lorusso solo che poi nei giornali si formano queste specie di eroi e o la sinistra o la destra ne usufruiscono. […] Non sono d’accordo a fare qualche altro omaggio a questo ragazzo. È il figlio di un professore, sono passati molti anni e io la vedo diversamente… Io non ho dato il voto al centrosinistra e queste sono cose che fanno bene al centrosinistra… Disubbidienti, No global… fanno tutti parte del centrosinistra e io non li posso vedere… così come le violenze contro la polizia, da qualsiasi parte arrivino».

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