Intervista a Alberto Burgio

Le ragioni di una scelta di campo

 

Quali i motivi di fondo l’hanno condotta alla decisione morale di impegnarsi a favore dell’eguaglianza e della giustizia sociale?

In questo caso non agiscono solo motivazioni teoriche soggettive, ma anche precisi motivi materiali esterni, che condizionano in larga misura le scelte di campo. La mia generazione, quella che ora ha circa cinquant’anni, è stata eminentemente politica: noi ci siamo trovati ad avere vent’anni nel cuore degli anni ’70, un decennio tra i più appassionati e coinvolgenti per la storia italiana – e non solo. È stata la politica ad attraversare la mia, la nostra vita, non il contrario.

 

Nei variegati filoni di pensiero della tradizione marxista è presente una riflessione etica?

È esistito anche un marxismo etico: l’austromarxismo, che ha innestato l’etica di Kant nella riflessione teorica del movimento operaio, ritenendo che la militanza per la giustizia sociale fosse un imperativo morale. Spesso la scelta di campo per il movimento operaio è stata forgiata da scelte etiche di fondo: ad esempio in Carlo Rosselli, che pure era un liberale. Buona parte del marxismo italiano, soprattutto ai primordi, dalla costituzione del partito Socialista, fino alla prima Guerra Mondiale, è intriso di motivazioni etiche.

 

Perché?

L’eticità della scelta di campo dipendeva soprattutto dalla estrazione borghese di molti militanti socialisti, mossi da profonde motivazioni umanitarie, non dalla considerazione “egoistica” dei proprio interessi immediati.

 

E in Marx?

Questo è un problema molto difficile, specie se si guarda al Marx maturo: per l’autore del progetto “scientifico” di una critica dell’economia politica e di “ una teoria del materialismo storico”, la questione morale non si poneva. Parlarne avrebbe limitato la “scientificità” del suo discorso. Ma è anche possibile interpretare in chiave etica la critica dell’economia politica e quello che Marx stesso chiama lo “scandalo” dell’estrazione del plusvalore. La lotta al dominio può essere letta sia come un bisogno morale che come la necessità di soddisfare a una costante “antropologica”: la refrattarietà di ciascuno ad essere sfruttato.

 

Nella storia del comunismo novecentesco l’imperativo della fedeltà alle scelte del Partito ha prodotto talvolta nei militanti dolorose scissioni o fenomeni di “doppia morale”.  Come si può uscire da questa contraddizione, che forse si interseca con quella tra la costruzione dell’uguaglianza e il rispetto delle libertà individuali?

Non, si può uscire con scorciatoie o semplificazioni da un problema che ha segnato profondamente la storia dei partiti socialisti e comunisti. Non si può porre la libertà individuale del militante come una necessità assoluta, perché bloccherebbe qualsiasi organizzazione. Ma quel fideismo ha nuociuto al movimento operaio, riducendo il numero e la qualità delle idee e dei progetti su cui confrontarsi per decidere le strategie politiche. Gramsci aveva cercato di farvi fronte elaborando nei  Quaderni un modello di Partito come comunità di “dirigenti”, come “intellettuale collettivo” organizzato in modo che nel suo funzionamento si proceda verso la tendenziale abolizione della differenza tra “dirigenti” e “diretti”. Bisogna muoversi in quella direzione, per creare delle comunità di eguali in cui viene elaborata collettivamente l’azione politica, tenendo conto delle effettive capacità e competenze di ognuno.

 

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