Intervista a Carlo Flamigni

“I controlli sulla scienza passano per la trasparenza”

“In morale non esistono maggioranze”

di Deborah Mascalzoni

 

La Bioetica viene spesso descritta come un tentativo di imbrigliare una scienza ritenuta pericolosa: è d’accordo con questa affermazione?

No, non credo che lo scopo della bioetica sia quello di controllare al scienza in senso normativo, proibitivo. Compito della bioetica è analizzare le posizioni in gioco, tenere conto delle diversità e della ricchezza che ci deriva da queste diversità. È  forse disciplinare per capire, studiare, aiutare a far capire meglio quello che, tropo spesso, è comunicato solo in modo scioccante per creare un caso.

I media la descrivono però come il tentativo di regolamentare le ricadute teconologiche e biotecnologiche di una scienza-fantascienza: la clonazione, la fecondazione in vitro, la terapia genica.

Invece la bioetica deve dare un contributo privo di pregiudizi, senza funzioni legislative, perché un ambito è quello dell’etica che deve dare il suo parere, un altro quello della democrazia che deputata eventualmente a scegliere. Naturalmente la scienza da parte sua deve essere trasparente, per garantire la possibilità di un controllo sociale.

Ma in questa prospettiva che ruolo ha il Comitato Nazionale di Bioetica?

Il Comitato Nazionale di Bioetica viene nominato dal presidente del consiglio, sulla base di diverse considerazioni. Di solito però il Consiglio dei ministri cerca di stabilire una maggioranza all’interno del comitato, in modo che questo sia in grado di produrre documenti che possano essere interpretati in un senso preciso. Quindi in governo agisce in modo che il Comitato di Bioetica gli dia strumenti per poter legiferare su quel problema così come ritiene che vada interpretato. In realtà questo deriva da un errore di base: in materia di morale non si deve mai arrivare ad una maggioranza e ad una minoranza. Qui manca una considerazione sul valore dell’incontro tra le persone: le persone sono tali perché sono portatrici di valori e i valori desunti devono poter essere considerati in modo paritetico. Dal Comitato di Bioetica bisognerebbe uscire sempre con una valutazione complessiva dei problemi non con una scelta tra le varie soluzioni proposte.

E come si dovrebbero elaborare le leggi in queste materie?

I progetti di legge che vengono presentati dovrebbero essere fatti in modo da tener conto dei differenti valori delle differenti culture, delle diverse religioni, dei diversi presupposti teologici, in modo che tutte le espressioni morali ed etiche del paese possano essere ascoltate e si possano confrontare. Ai cittadini deve essere presentato un quadro il più possibile completo, sempre molto complesso, delle posizioni che nel paese si dibattono, senza che questo voglia dire mai la verifica di quale sia la posizione di maggioranza. In materia morale, insomma, le maggioranze non esistono: è proprio qui che i valori sono di partenza tutti uguali

Ma non tutti accettano questo confronto…

Certo c’è un’interpretazione die valori che è contraria a quello che dico e che sostiene: ” i valori veri sono i miei e io ne ho le prove, ho la certezza della mia fede e quindi io sono il portatore della verità morale, voi siete i fratelli che sbagliano”. Esattamente l’opposto di chi ritiene che tutti siamo “stranieri morali”, o per lo meno lo siamo in molti, e come tali dunque  ci dobbiamo confrontare.

Quindi ci si può aspettare un giudizio obbiettivo dal comitato?

No, non ci si può certamente aspettare un giudizio oggettivo. E soprattutto non ce lo si può aspettare se si inseriscono nel Comitato maggioranze predeterminate.

Ma è possibile pensare ad un controllo legittimo sull’attività scientifica?

I controlli sulla scienza passano attraverso la trasparenza della scienza. Intanto è necessario che i ricercatori quindi anche gli scienziati e la scienza, siano capaci di autocontrollo; e poi che la scienza mantenga quei requisiti che la rendono tale: il comunitarismo, la capacità di autocritica, l’essere disinteressata, la trasparenza, la capacità di confronto paritetico, l’obiettività, l’universalismo. Tutte queste prerogative fanno della scienza un oggetto “facile”, trasparente per la valutazione da parte dei cittadini.

E perché questo non avviene?

Perché manca un passaggio fondamentale: i cittadini devono essere informati. È uno dei grandi problemi della nostra società, avere dei “mezzi di trasporto” dell’informazione verso i cittadini che siano chiari ed onesti. Molti di noi chiedono non che i media facciano educazione e pedagogia sui problemi scientifici, ma semplicemente che siano così onesti e oggettivi da fare inevitabilmente anche educazione. Perché un’informazione sincera e veridica è un’informazione anche educativa. E se non c’è un’educazione scientifica, il cittadino non ha gli strumenti per poter giudicare.

In questo contesto, che ruolo svolgono i media?

I comitati di bioetica, i bioeticisti, i filosofi, sono utili per far capire certi problemi ai cittadini, ma non sono quelli che si devono occupare dei giudizi. Non è da loro, alla fine, che deve venire fuori l’indirizzo della ricerca scientifica: cosa uno scienziato debba fare o no. Questo è un problema di democrazia, nella nostra è purtroppo una democrazia incompleta, perché dai giornali e dalle televisioni spesso arriva un’informazione in qualche modo corrotta piena di pregiudizi, programmata a finalità diverse. E lo stesso si può dire dell’informazione fornita direttamente dallo stato. La prova è, ad esempio, la mancanza di un equa distribuzione dell’informazione sulla salute. Non ci sarebbero dei casi Di Bella, se lo stato fosse equo in questo campo.

Libera ricerca per libera scienza, dunque; ma le caratteristiche proprie di una scienza di questo tipo possono dirsi al sicuro da condizionamenti di tipo economico? Penso per esempio alle ricerche finanziate dalle multinazionali o alla carenza di fondi per la ricerca di base.

No certo. Innanzitutto esistono die tipi di scienza: la scienza cosiddetta accademica – che corrisponde per definizione a quei requisiti di obiettività, comunitarismo ecc., di cui abbiamo parlato prima- e invece la scienza post-accademica che è finanziata direttamente dall’industria o da altri enti che hanno un grande peso nella società e sfuggono al controllo sociale. Naturalmente questa scienza post-accademica non ha nessuna voglia di essere né comunitarista, né disinteressata, è anzi una scienza che tende al segreto, alla menzogna, a trattenere informazioni. E il problema fondamentale è che questa scienza tende a sconfinare anche nella scienza accademica.

E questo sconfinamento che effetti produce?

Ad esempio quando un ricercatore dell’Università deve chiedere all’industria il finanziamento della sua ricerca non è più padrone dei risultato che ha ottenuto. Oppure se un ricercatore è finanziato da una multinazionale del tabacco, le sue ricerche sugli effetti del fumo sul polmone non sono più attendibili. Il guaio è che in questa condizione non ci possiamo più fidare della scienza. Bisogna fare in modo che la gente che in questo momento ha forti dubbi sull’operato degli scienziati possa tornare ad avere la fiducia di un tempo che però va meritata.

Cosa si può fare per ricostruire questa fiducia?

È soprattutto un problema politico: bisogna ripristinare il peso che ha sempre avuto in tutte le società la ricerca scientifica come impegno sociale. Occorre far si che la ricerca di base, sulla quale si costruisce poi in gran parte la ricerca applicata abbia i finanziamenti giusti. E capire che la ricerca scientifica offre un grande ritorno agli investimenti della società, un ritorno non soltanto economico ma anche morale.

 

 

*Tratto da Il Domani, 23 luglio 2003

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