Carlo Augusto Viviano – Estratto da “Etica Pubblica”

Non è difficile mettere in fila nero su bianco, per ciascuno di noi, quelli che sono i maggiori fattori di rischio per la democrazia nell’età della globalizzazione. L’integralismo religioso, il populismo mediatico, l’invisibilità del grande capitale finanziario, il potere delle multinazionali sui decisori politici, le disuguaglianze sociali che prosperano ormai anche nell’emisfero della ricchezza. Magari possiamo dissentire sulla loro gerarchia, ma certo questi sono riconosciuti da tutti come gli elementi chiave del «conflitto epidemico» (prendo a prestito l’espressione da Guido Rossi) che permea la contemporaneità a tutti i suoi livelli. A pochi, probabilmente, verrebbe spontaneo includere il progresso scientifico in questa casistica: eppure non siamo così lontani dal vero se consideriamo che la scienza, se non un vero e proprio elemento di rischio per la democrazia, è quantomeno un’area grigia in cui quest’ultima gioca molto di sé.

Sgombro subito il campo da possibili fraintendimenti. Nessun rigurgito antimodernista in questa mia affermazione, nessuna nostalgia per un presunto “buon tempo andato”: solo una cruda constatazione dei fatti. Se abbiamo anche solo una vaga idea di quanto pesi sul nostro vissuto quotidiano, e sulle nostre prospettive di breve e medio periodo, la ricerca nei settori dell’energia, della fisica dei materiali, delle discipline biomediche — solo per citarne alcuni — non abbiamo difficoltà a capire come le scienze teoriche e applicate siano oggi la chiave di volta del sistema sociale che determina la nostra esistenza. Eppure i contorni della questione restano largamente indistinti, consegnati all’ignoranza e alla negligenza degli attori dell’informazione.

Il caso si fa eclatante in Italia, complice probabilmente l’eredità di lungo periodo dell’idealismo che relega il sapere scientifico al dominio della pura tecnica: e i risultati si sono toccati con mano in occasione del referendum per l’abrogazione della legge sulla fecondazione assistita, che — oltre a escludere di fatto, con il suo fallimento, il nostro paese dal novero di quelli in cui si fa ricerca in campo medico — ha visto la scena mediatica desolatamente priva di reali contenuti informativi e occupata per intero dagli anatemi del cattolicesimo più conservatore.

In realtà, il filo che lega la ricerca scientifica all’effettivo esercizio della democrazia è strettissimo. Le ricadute della ricerca sulle prospettive presenti e future di ciascun individuo, della collettività e del pianeta stesso, sono tali e tante da far comprendere come la scienza debba essere compiutamente inclusa nel discorso democratico. Che significa questo? Abbiamo tentato di dare una risposta attraverso i contributi che trovate in sommario in questa stessa pagina, e che affrontano, da diverse angolature, la questione del rapporto fra scienza e società sotto il profilo fondamentale delle norme che regolano e controllano gli indirizzi della ricerca.

Quella che ne esce è una proposta complessiva di ridiscussione del noto tema dei controlli sulla ricerca. Da più parti sono stati costituiti, e sempre più si invocano, comitati di vigilanza che producano diritto in materia: composti da giuristi, ricercatori, e, specifico del nostro paese, personalità religiose, essi in realtà hanno denunciato sino a oggi più i propri limiti che la propria utilità sociale. I laboratori di ricerca sono oggi assai più sottoposti ai doveri del mercato che non a quelli dell’utilità sociale: e questo è di per sé già a sufficiente a rilevare la complessità delle strategie da porre in essere per la tutela dell’interesse collettivo nell’ambito delle scienze applicate. Si tratta allora, più che di reiterare affermazioni di principio che rischiano di trovarsi senza conseguenze pratiche, di pensare in termini di dinamicità e di fattibilità. Occorre, soprattutto, includere la scienza nel circuito del discorso pubblico, di renderla cioè fruibile in termini democratici e partecipativi. Un ruolo chiave, in questo caso, è svolto dall’informazione. I media sino ad ora hanno troppo spesso privilegiato la soluzione del sensazionalismo — basti pensare al caso della clonazione, sulle cui applicazioni terapeutiche pochissimo si sa al livello della coscienza diffusa — piuttosto che quella dell’informazione corretta e accurata. Eppure è proprio quest’ultima la strada più diritta per consentire all’opinione pubblica di influire direttamente sulla scelta degli indirizzi di ricerca, per rendere cioè la scienza veramente democratica e restituirle, senza timori spesso infondati, il ruolo che le spetta nell’ordinamento sociale.

 

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